Sigaretta elettronica: prezzi, etica e verità

Sigaretta elettronica prezzo e verità: fa davvero smettere di fumare? È nociva? E poi: conviene farne un’attività d’impresa?

N.B. Puoi saltare al paragrafo “sigaretta elettronica prezzo” se sei interessato esclusivamente all’argomento.

La sigaretta elettronica non nuoce alla salute! Anzi, credetemi amici miei carissimi, lettori, follower e liker: è stimolante, eccitante, digestiva, aiuta la concentrazione ed è pure divertente! Chi sono io per dirlo? Il massimo esperto vivente della sigaretta elettronica!!!

Sigaretta elettronica modello Ego

Ecco, avete appena assistito ad alcuni degli effetti della nicotina assunta per inalazione, in dosi importanti ma non eccessive: euforia, ipersocialità (anche digital), smodata sicurezza in sé stessi. Quantità più elevate – soprattutto se ingerite – sono oltremodo pericolose: si va da forti attacchi di nausea a violenti conati di vomito, fino ad arrivare al decesso senza tappe intermedie.

Però tranquilli: per restarci secchi di nicotina è necessario assorbirne davvero tanta ed in poco tempo. Almeno, dico almeno, 50/60 mg. Cioè, a seconda della concentrazione, una goccia più o meno minuscola.

A questo punto, in funzione del grado di interesse che nutrite nei confronti delle e-cig, vi state probabilmente chiedendo:

  1. Qual è la verità circa la sua pericolosità? Sempre che ce ne sia una.
  2. Che ci fa la sigaretta elettronica in un blog che, per quanto personale, aspira ad abbracciare argomenti come la SEO, i social media e più in generale il Web e l’inbound marketing?

Inizio col rispondere alla prima delle due domande, dal mio modesto (ecco un calo di nicotina) punto di vista: la sigaretta elettronica può davvero risultare nociva per la salute dell’uomo?

Nessuno studio dimostra la pericolosità della sigaretta elettronica.

Per smettere di fumare avevo già provato quasi tutte le soluzioni disponibili: cerotti, psicoterapia, nauseabonde chewing gum e spilloni agopunturali conficcati in tempie e lobi. Restava solo lei, la sigaretta elettronica. Ma prima di acquistarne una era per me indispensabile saperne il più possibile.

Ho quindi consultato medici, un’amica farmacista, un parente tabaccaio ed una cartomante di piazza Navona. Ma soprattutto ho rovistato il Web alla ricerca di leggi, certificazioni, articoli di approfondimento, opinioni illustri e pronunce istituzionali. Per arrivare ad una conclusione semplice quanto moderatamente confortante: nessuna indagine condotta fino ad oggi ha rilevato rischi, fatta eccezione per quanto abbiamo già detto della nicotina (che è un veleno, prima ancora di uno stupefacente).

Non nascondo la delusione per la presenza in Rete di numerosissimi articoli che tutto fanno fuorché chiarire l’argomento. E questo è dovuto alla congiuntura tra un fenomeno in crescita esponenziale, l’imbarazzante assenza di una precisa regolamentazione della materia, e la carenza di ricerche scientifiche condotte su ampia base statistica. Per intenderci, spesso persino pezzi giornalistici pubblicati dalle medesime testate sono fra loro contraddittori: ora additano la sigaretta elettronica come dannosa, ora ne incensano l’efficacia come strumento per smettere di fumare.

L’OMS, l’Europa, l’Italia. Le leggi e le opinioni sulla sigaretta elettronica.

Una delle più citate fonti in tema di sigaretta elettronica è l’Organizzazione mondiale della sanità, che in diversi documenti ne mette in dubbio l’utilità e denuncia il rischio che per i giovani costituisca un ponte verso il tabagismo. Particolarmente menzionata è questa nota, che però risale addirittura al 2008.

Più di recente l’Unione Europea ed il Ministero Italiano della Salute sono intervenuti per regolamentare non tanto la sigaretta elettronica (dal 2011 vietata ai minori di 16 anni) ma piuttosto i “fluidi”, ovvero le ricariche: nel caso in cui contengano nicotina, confezioni e flaconi devono tra l’altro riportare un’etichetta con il simbolo del teschio, a testimonianza della pericolosità della sostanza. È inoltre indispensabile indicare il numero di telefono del distributore / produttore, da contattarsi in caso di “sovradosaggio”.

Fortunatamente in queste settimane quelle disposizioni comunitarie cominciano a sortire effetti concreti, tanto che gran parte delle catene di negozi specializzati si va finalmente adeguando. Chi non lo fa – è stato il recentissimo caso di un brand particolarmente diffuso sul nostro territorio – si vede sequestrate le scorte di e-liquid.

Tuttavia chiunque si avvicini a questo mercato continua a percepire la mancanza di diffusi controlli e di una organica disciplina del settore. Per esperienza so bene che i marchi RoHS e CE applicati sui prodotti di fattura cinese non sono sempre prova di affidabilità e garanzia; eppure fino ad oggi sono soltanto quei timbri a certificare “legalità” in prodotti elettronici che somministrano sostanze fortemente tossiche e potenzialmente letali. Cioè la sigaretta elettronica..

La sigaretta elettronica è un valido sostituto del tradizionale tabacco?

Per rispondere a quest’altro interrogativo devo innanzitutto ricorrere alla mia esperienza personale. Fino allo scorso 3 febbraio consumavo ogni giorno – complice il lavoro sedentario – un numero inconfessabile di pacchetti azzurrognoli con stampate sopra immagini di piramidi e palme. Dal 4 febbraio non ne ho più comprati, e ne conservo ancora uno in bella vista, intonso trofeo della vinta battaglia. La guerra si vedrà.

In questo periodo ho scoperto che la sigaretta elettronica sostituisce in tutto e per tutto quella tradizionale, tanto nella gestualità quanto nella ritualità quotidiana e persino nel gusto. Ma ho anche preso atto che in verità è proprio la nicotina a permettere di contrastare senza impegno la tentazione di tornare indietro.

Dunque il mio consiglio a chi voglia smettere è: svapare, fin tanto che se ne senta il bisogno. Col passare dei giorni si potrà gradualmente ridurre la concentrazione della sostanza nei liquidi e, quasi inavvertitamente, incamminarsi verso la definitiva emancipazione dalle “bionde”.

D’altra parte pare sia questa la sorte di molti ex fumatori: i forum online specializzati traboccano di testimonianze di persone per le quali catrame e monossido di carbonio sono oramai uno sbiadito ricordo. Se non dovesse bastarvi la consultazione delle community date un’occhiata a questo recente articolo di Panorama – che in verità un po’ di sapore dell’article marketing ce l’ha: “Sigaretta elettronica: nuoce gravemente al fisco“. A detta dell’autore, lo scorso dicembre i tabaccai italiani hanno registrato una contrazione delle vendite di prodotti da fumo pari al 10%.

Costi dello “svapo” e prezzi sigarette elettroniche.

I prezzi degli essenziali strumenti da “svapo” variano molto, ma per l’acquisto di articoli mediamente affidabili l’investimento da preventivare è nettamente inferiore a quello che deve sostenere chi consuma un pacchetto di bionde al giorno: una sigaretta elettronica di discreta fattura, generalmente fornita in due unità all’interno della stessa confezione, costa dai 50 agli 80 Euro.

Le cifre si fanno ancora più contenute se si propende per l’acquisto online; proprio a causa della scarsa conoscenza e regolamentazione del mercato, purtroppo in alcuni negozi si pratica un notevole ed ingiustificato aumento dei ricarichi, talvolta anche attraverso il ricorso a stratagemmi. Come ad esempio il rivendere singolarmente e-cig originariamente impacchettate (e come tali pubblicizzate) in doppia unità; # sapevatelo.

Al prezzo della sigaretta elettronica va aggiunto quello dei ricambi, che però non incide in misura sensibile sulla spesa mensile: 5/10 Euro. C’è infine da considerare le ricariche, e qui l’entità dell’esborso cambia sensibilmente da svapatore a svapatore. Un flacone di e-liquid da 20 ml prodotto in Italia costa mediamente 10 Euro, indipendentemente dalla concentrazione di nicotina; per un ex fumatore “leggero” probabilmente ne basterà uno ogni due / tre settimane, per gli altri sarà forse necessario acquistarne una mezza dozzina al mese o poco più.

I fluidi – disponibili in diversi aromi più o meno simili al gusto del tabacco – sono generalmente composti in misura variabile da:

  1. Glicole propilenico (blandamente tossico in quantità “industriali”)
  2. Glicerina
  3. Acqua
  4. Nicotina (in misura variabile da 24 a 4 mg/ml).

Data l’impossibilità di verificare personalmente l’effettiva quantità di nicotina e glicole propilenico, o di eventuali altre sostanze, io non mi rifornirei all’estero per acquistare ricariche per la sigaretta elettronica. Per quanto ad oggi neanche in Italia siano in vigore leggi sulla rigorosa certificazione dei liquidi e della loro composizione. Ma per la cronaca è giusto dirlo: in Polonia alcuni produttori praticano prezzi sensibilmente inferiori alla media (5 Euro per 20 ml, ad esempio).

Che siate o meno del mio stesso avviso, è giusto ricordare che fumare più costose foglie secche e carta filigranata bene comunque non fa, indipendentemente dalla nazionalità del produttore di tabacco e sigaretta elettronica.

Prospettive, cifre e statistiche sulla sigaretta elettronica.

In Italia – secondo la Doxa – il venti per cento dei dieci milioni di fumatori ha provato o ha intenzione di sperimentare nel prossimo futuro la sigaretta elettronica. Secondo il già citato articolo di Panorama, sono circa 400.000 le persone che dalla “tirata” sono passati alla svapata senza rimorsi, ed entro il 2013 potrebbero diventare un milione tondo tondo. Nonostante solo alcune delle e-cig attualmente in commercio siano adatte a chi desidera liberarsi definitivamente del tabagismo.

Certo, l’argomento è delicato perché entra in gioco il tema della salute pubblica, e con la salute non si scherza. Ma neanche mi sembra intelligente continuare a fare gli indiani davanti a quei numeri. E questo vale sia per chi è schiavo del vizio delle bionde, sia per chi sarebbe chiamato a regolamentare un mercato che ancora sembra il far West, sia per chi voglia cogliere nel canale una nuova opportunità lavorativa ed imprenditoriale.

Torniamo alla seconda domanda, ancora inevasa: che ci fa la sigaretta elettronica in un blog che tratta di Web marketing?

Conviene lanciarsi nel commercio della sigaretta elettronica?

Le realtà aziendali del settore sono già numerose, ma il trend lascia ipotizzare ampi spazi di affermazione per i futuri operatori. Soprattutto sul versante digitale del commercio e del marketing, dove mi sembra di poter riscontrare rara professionalità: e-store poco curati e a volte persino improvvisati; attività di Web e social media marketing, a supporto delle catene di negozi, sostanzialmente inesistenti; totale assenza di comunità di consumatori e di organi aziendali, uniti attorno all’esigenza di disciplinare la materia e preservare il consumo da rischi.

Insomma: per chi sia alla ricerca di un impiego, di un’idea per una piccola attività commerciale o di una vera e più o meno grande avventura imprenditoriale, la sigaretta elettronica può rappresentare oggi un’opportunità preziosa. In tempi di crisi nel mondo del lavoro di alternative non ce ne sono molte; chi decida di intraprendere questa, puntando sull’inbound marketing per promuovere un’iniziativa che riesca a coniugare profitto con sincera ed esplicita attenzione ad etica e salute, a mio avviso l’avrà imboccata giusta.

Sempre che la sigaretta elettronica non finisca per restare prima o poi imbrigliata – a torto o a ragione – in una disciplina legislativa particolarmente severa e limitante. Un’eventualità questa da ascrivere alla voce major risk di un project plan ben strutturato, di quelli che per non lasciare nulla al caso contemplino pure ipotesi di riorganizzazione e riconversione aziendale. In Sali e Tabacchi magari, che tanto quello è un settore che difficilmente rischia di andare – è il caso di dire – in fumo.

E voi, fumate? Avete già provato la sigaretta elettronica? Siete rivenditori? Se vi va di discuterne mi trovate qui di seguito, fra i commentatori, o su Twitter (il mio account è @googlepolicyit).

Social media: 25 buoni motivi per NON usarli

I social media hanno un fascino irresistibile, ma dopo una lunga esperienza professionale ho capito: non servono a niente.

Per i social media ho sacrificato anni di lavoro, passione e diottrie, e qualche volta ho dovuto trascurare affetti e persino il sonno. Ma ora basta: domani non mi ritroverò un’altra volta vittima dei presenzialisti di Twitter, ricurvo dietro un blog ancora da svezzare, stremato dal confronto con un dirigente dal braccino corto, frustrato dal pubblicare anonimamente i miei aggiornamenti di stato su di una pagina Facebook aziendale che mia non è. Nel modo più determinato e definitivo che posso, dico: ti lascio, Web 2.0!

Certo, non posso affermare che i social media siano stati con me ingenerosi, che non mi abbiano dispensato belle soddisfazioni per ricambiare il devoto impegno. Credete forse che non sia consapevole di quale nostalgia si accompagnerà al ricordo di quelle volte che ho potuto bannare utenti, io privilegiato giudice supremo di comunità digitali, senza per questo provare rimorsi? Pensate che a mia volta non sappia essere riconoscente nei confronti di quei dirigenti che, lasciandosi irretire dalle mie argomentazioni nell’illusione di poter incrementare con i social media lead e conversioni, hanno voluto riempire tanto il mio portafogli quanto il mio orgoglio professionale?

10 anni di social media non fanno un Ernesto

Il perché di una definitiva conversione.

Proprio il maturo equilibrio tra simpatia e sofferenza che oramai nutro nei confronti di Internet, così come il sentirmi serenamente libero di manifestare quegli opposti sentimenti, mi rende umanamente certo di aver fatto la scelta giusta: è arrivato il tempo di cambiare lavoro. E di vuotare il sacco: i social media non portano a nulla, tanto le persone quanto le aziende. Credeteci, se a dirlo è chi fino a ieri si lambiccava per convincere imprenditori e manager della loro utilità e della loro efficacia.

Così è, se vi pare: i colleghi non s’aspettino le mie scuse, perché tanto sapranno bene loro come sottrarre all’attenzione di SERP, pubblica opinione e datori di lavoro quel che sto per dire. Nel congedare questa mia esperienza lavorativa ed esistenziale, in attesa di chissà quale futuro e meno sacrificante impiego, ho deciso di raccogliere qui 25 dettagliate ragioni per tenere lontani i social media.

Sappiate che non ho la pretesa di convincere alcuno, ma piuttosto la modestia di considerare l’elenco tutt’altro che esaustivo. D’altra parte non è sicuramente tutta farina del mio sacco, anzi: colgo l’occasione per ringraziare i responsabili d’azienda con i quali mi sono confrontato in questi ultimi anni, perché sono stati proprio loro a fornire gran parte delle seguenti motivazioni, per la mia e la vostra utilità.

25 motivi per trattare i social media come la peste.

Non date retta ai marketer, tenete lontani dai social media voi e la vostra azienda se vi riconoscente anche solo in parte in queste legittime, sane e condivisibili prospettive.

  1. Il Web 2.0 è ancora immaturo. Aspetto la terza edizione.
  2. Non sono alla ricerca di strumenti promozionali dall’ottimo rapporto tra costi e ricavi.
  3. L’hashtag è una specie di negozio virtuale?
  4. L’agenzia di marketing ha promesso a me e al capo un viaggio a Cuba in cambio degli investimenti in cartellonistica.
  5. Ascoltarmi? La gente deve comprare i miei prodotti, mica sentirmi cantare sui social media!
  6. Ciò che non si tocca non si compra.
  7. Non aprirò account sui social media perché provo un sottile piacere nel dare ai concorrenti un qualche vantaggio in partenza.
  8. Di teoria del passaparola ne parlava mio nonno.
  9. Ma lei mi vede a cinguettare?
  10. I sondaggi li lascio alla politica.
  11. Dicono che Facebook mette a rischio i matrimoni.
  12. Se mi vogliono mi trovano sulle Pagine Gialle. E pure su quelle Bianche.
  13. Io mi sono fatto da solo, senza l’aiuto di nessuno, e non ho amici. Vuole che incominci adesso?
  14. Non ho alcun interesse ad essere rintracciabile sempre e ovunque. C’è la mia segretaria per le piccole faccende.
  15. Mi piace un sacco investire migliaia di Euro su quei media di cui non posso misurare l’efficacia.
  16. Assegno valore inestimabile alla privacy.
  17. Ci manca solo che mi metta a dar retta a ciò che i miei clienti vorrebbero dirmi!
  18. E poi di clienti ne ho già fin troppi.
  19. La gente è invidiosa per natura: già li vedo lì pronti a sparlare di me su Facebook.
  20. Il mio tempo è prezioso, le chat le lasci a mio nipote.
  21. I social media sono una tendenza passeggera.
  22. Preferisco le cose semplici, non complicate come Facebook, Twitter e tutta quella roba 2.0.
  23. Io sono una persona vera: non credo affatto in quei finti network online.
  24. I social media sono pieni di gente che non ha niente di meglio da fare che sprecare il proprio tempo.
  25. Disdegno l’idea di potermi ritrovare al centro dell’attenzione.

Oltre che ai manager di cui sopra, nello stilare questo elenco mi sono liberamente ispirato ad un post di un noto blogger statunitense. Lui però non ha deciso, almeno non ancora, di abbandonare i social media. Qualcuno di voi vuol mettersi in società per aprire un agriturismo?

Google+ supera Twitter: 2° social media nel mondo

Google+ è il secondo social media più frequentato al mondo; al primo posto regna Facebook, Twitter solo quarto dopo Youtube.

Che con Google+ quelli di Mountain View facessero sul serio si era capito fin da subito. Ma che ad un anno e mezzo dal lancio il social media sarebbe persino riuscito a raggiungere il secondo posto fra i network online più frequentati al mondo, superando Youtube e Twitter (rispettivamente terzo e quarto a poche misure di distanza fra loro), forse nessuno ci avrebbe scommesso un soldo.

Scontatamente al primo posto per numero di frequentazioni resta ancora Facebook, da anni in fuga rispetto ai concorrenti: accedono al network ogni mese quasi settecento milioni di “liker”, pari a circa il doppio di Google+ che si attesta a 343 milioni di utenti mensili.

Google+ supera Twitter

La classifica appena riportata – pubblicata da un’agenzia londinese di buon credito e specializzata nel Web – si rifà all’ultimo trimestre del 2012, arco temporale di riferimento per analisi e consuntivi già pubblicati e in via di elaborazione. I dati hanno valore internazionale: il campione rappresenterebbe il 90% dell’intera popolazione mondiale.

In crescita tutti i principali social media.

Ma c’è anche un altro tipo di competizione che interessa i social media: il tasso di crescita. Ed in questa gara è Twitter ad aggiudicarsi il primo posto, con un incremento su base trimestrale del 40% di persone a cui piace cinguettare. I suoi utenti mensili sono 288 milioni, equivalenti al 21% dei naviganti.

Nella speciale classifica Facebook si tiene nel gruppo di testa, con un aumento superiore al 30%. Resta straordinario il numero di utilizzatori: una persona su due, fra quelle che in tutto il Pianeta hanno accesso ad Internet, ha un account sul canale creato da Mark Zuckeberg. A stretto giro segue Google+ con il 25% di incremento e lo “share” del 25%.

Se lievita il consenso anche per Pinterest e Linkedin, numeri negativi si registrano invece nei social media di portata locale, schiacciati dalla concorrenza dei colossi internazionali. Gli utilizzatori dell’uscente Badoo, ed in particolare quelli che tramite Facebook ti chiedono se hai mai desiderato portare a letto una reciproca amica, si ritengano avvisati.

Le ragioni del successo di Google+

I motivi di un’escalation così clamorosa per la piattaforma inventata da BigG sono a mio avviso due. Il primo ha senz’altro a che fare con la crescita geometrica dei possessori di smartphone basati su sistema operativo firmato Google. Volenti o nolenti, prima o poi tutti coloro che usano un dispositivo Android si ritrovano come per magia attivi anche su Google+.

In realtà il discorso vale ugualmente per computer, notebook e tablet, come d’altra parte sostengono anche gli autori della statistica: sul network di Mountain View ci finiscono tutte le persone che abbiano creato un account Google per usare qualunque degli ulteriori servizi offerti: Gmail, Documenti, Drive, Calendar, Maps e altri. È stata dunque anche la sinergia fra le applicazioni di BigG a garantire all’ultimo nato l’esponenziale crescita registrata.

Tra l’altro il possedere un account su Google+ fa bene ai sempre più numerosi autori di blog personali: a detta di molti tecnici della SEO è indispensabile possederne uno per favorire la visibilità sui motori di ricerca, tanto in termini di posizionamento quanto nella possibilità di catturare l’attenzione attraverso i “rich snippet” (per intenderci, quelli che ad esempio al fianco di un risultato mostrano la foto dell’autore del relativo contenuto).

Rendiamo onore al merito.

Twitter cresce notevolmente, e probabilmente riuscirà in futuro anche ad accelerare ulteriormente il passo attraverso i nuovi servizi proposti (Vine, ad esempio). A Google+ può dirsi tutto, ma c’è da scommettere che d’ora in poi nessuno più si permetterà di appellarlo come “città invisibile”: è lì che gongola sul secondo gradino del podio,  facendo bella mostra della medaglia di bronzo appena conquistata.

Però al primo posto, apparentemente inarrivabile, resta Facebook. Che che se da un canto può vantare – come i diretti concorrenti – un alto tasso di crescita, oltre che un elevatissimo numero di frequentatori attivi al mese, dall’altro regna incontrastato nella graduatoria principe: la quantità totale di user. In questo la ricerca statistica che abbiamo appena esaminato parla chiaro: sul network ci bazzicano in totale – seppure non sempre con gran frequenza – circa un miliardo di persone.

In definitiva: da qualunque prospettiva si guardi ai dati, per Google+, Twitter ed altri social media emergenti la strada per impensierire Facebook appare ancora molto, molto lunga. Che dite: mi sbaglio?

Fonte.

Social curriculum e modulo curriculum europeo [infografica]

L’unione tra social curriculum – sempre più ricercato dai cacciatori di teste – e curriculum europeo (Europass), è il segreto per trovare lavoro. Credo.

Se un buon curriculum è l’arma più affilata per trovare un impiego, l’uso combinato di social curriculum e modulo europeo (Europass) costituisce un intero arsenale. Così almeno viene da pensare leggendo una recente e golosa infografica che raccoglie statistiche e sondaggi di autorevoli fonti, come Time e Forbes.

Cos’è il social curriculum? È la raccolta più o meno organica di informazioni integrate in un profilo personale online, come Facebook, Google+ e compagnia bella, destinato a favorire eventuali assunzioni. Tra il 2011 ed il 2012 sembra sia diventato uno gli strumenti più utilizzati dai cacciatori di teste nell’inseguire le prede:

  1. Lo scorso anno il 93% delle aziende e degli head hunter ha fatto ricorso a Linkedin per reclutare dirigenti ed impiegati.
  2. Il 66% dei “recruiter” ha ravanato su Facebook per lo stesso scopo, il 54% su Twitter.
  3. Sempre nel 2012, più di quattro persone su dieci hanno cercato impiego tramite i social media.

Usare assieme social curriculum e modulo curriculum europeo

Modulo curriculum europeo.

Se ora è finalmente più chiaro – perlomeno a me – cos’è il social curriculum, è il momento giusto per parlare di modulo curriculum europeo. Chiamato Europass, altri non è che una specie di codifica approntata dalla UE per guidare i job seeker nella compilazione dell’elenco delle competenze e delle qualifiche professionali, secondo uno schema “omologato” e dunque facilmente comprensibile da qualunque impresa occidentale (se non mondiale). Composto di cinque distinti modelli, di semplice compilazione e comunque supportati da dettagliate guide, è gratuitamente disponibile per il download presso il sito Web ufficiale europa.eu.

Fra i diversi moduli c’è il “Passaporto delle lingue”, che consiste in una sorta di autocertificazione sulla conoscenza dell’inglese, del francese, del tedesco e di altri idiomi stranieri. Il sistema di autovalutazione permette di dichiarare la propria abilità linguistica attraverso tre diverse classificazioni: “comprensione”, “parlato” e “scritto”.

Un metodo simile, solo un pizzico più articolato, viene utilizzato in un altro modello per qualificare il percorso di formazione; ad ogni livello scolastico corrispondono precisi codici, legati tanto al grado quanto all’indirizzo dell’istruzione maturata. Infine c’è lo strumento chiamato “Europass mobilità“, che aiuta nel declinare le competenze eventualmente acquisite all’estero.

Il social curriculum: chi, come e perché.

Se il modulo europeo è oramai lo standard per compilare un curriculum, ed il social curriculum è tra le vie brevi perché le nostre referenze raggiungano i reclutatori, allora è chiaro che di entrambi non si può più fare a meno.  Torniamo quindi all’infografica e lasciamoci guidare dalle sue statistiche e dai suggerimenti, alcuni dei quali in verità solo un pizzico scontati:

  1. In che modo il social curriculum può favorire le candidature per specifici settori lavorativi?
    1. Offre una chiara ed efficace esposizione di competenze ed esperienze.
    2. Favorisce l’accesso a reti professionali.
    3. Permette la pubblicazione di elenchi facilmente ed immediatamente aggiornabili.
    4. Consente di riscontrare la visibilità dei dati attraverso le statistiche sui lead (numero di visite, origini del contatto, etc.).
  2. Quali social media utilizzare?
    1. Linkedin è nato per i professionisti, quindi meglio si presta a trovare lavoro. Tanto più che agevola le aziende nella ricerca di candidati per keyword, settori industriali, gruppi e network.
    2. Tumblr, WordPress ed altri siti come Blogger, consentono la pubblicazione di blog a costo zero dove promuovere il proprio curriculum (social, appunto).
    3. Twitter e Facebook permettono di evidenziare le competenze, di stringere contatti diretti con le imprese, e di attingere immediatamente alle eventuali offerte di lavoro (sempre più spesso pubblicate attraverso i social media).
  3. Qual è il social curriculum preferito dai cacciatori di teste?
    1. Secondo chi ne sa di più, il social curriculum ideale dovrebbe indicare – fra l’elenco di qualifiche e idoneità – anche l’appartenenza ad un’associazione professionale. Nel caso risulti impossibile, pare sia comunque molto ben vista l’esplicita partecipazione ad attività di volontariato (motivo di merito in ogni caso).
    2. È davvero ovvio ciò che invece non deve apparire per nessuna ragione al mondo sui profili di Facebook, Twitter & Co. Ribadirlo, però, male non farà: è d’obbligo tenere lontani errori grammaticali, espressioni volgari, simpatie per droghe ed alcolici, e finanche post di carattere religioso (a meno di volere un posto come guardia svizzera o custode di moschea).

Sei influente? Dimostralo, creativamente!

Se si ritiene di possedere buone doti di authority ed influencing sui social media è assolutamente necessario farne menzione nel curriculum. Come? Ad esempio dichiarando il proprio Klout Score, strumento di valutazione degli account Twitter tanto odiato quanto diffusamente affermato. Se proprio non dovesse piacervi è sempre possibile usare in alternativa Twitalyzer, ma non ci si illuda che goda della stessa considerazione.

Ovviamente essere autori di un blog molto frequentato, e costantemente citato su Pinterest, Digg, Google+ ed altre community online, significa disporre di un biglietto da visita davvero prezioso. I meno fortunati, i cui post vengano puntualmente snobbati dai social media, è bene che almeno si diano da fare su Linkedin, dove un cospicuo numero di “collegamenti”, raccomandazioni ed eventuali endorsement pare valga più di un master alla Harvard University.

Il modo ideale per rappresentare il proprio social curriculum è quello di renderlo accattivante ricorrendo a soluzioni creative ed originali. È il caso, ad esempio, di chi ha affidato ad una divertente infografica l’elenco dei titoli di studio e delle esperienze professionali. O di chi, attraverso un sapiente uso di Photoshop, ha incollato quelle informazioni sulla confezione Tetrapak di un succo di frutta, al posto della lista degli ingredienti e delle componenti organiche. C’è persino chi ha modellato il layout del proprio curriculum sul look di Google Analytics, e l’idea mi piace talmente tanto che penso la farò presto mia.

Aggiornamento: proprio in queste ore un giovane parigino disoccupato ha pubblicato il suo curriculum su di un fake-site di Amazon approntato per l’occasione; l’unico prodotto da inserire nel carrello – con tanto di prezzi e dettagli sulla spedizione – è lui, “ultimo pezzo rimasto”. Non passerà inosservato.

Social media ed Europass aiutano davvero a trovare occupazione?

Anche a rischio di sembrare un po’ choosy, prima di chiudere questo post vorrei chiedervi se conoscete ricchi datori di lavoro alla ricerca di social media manager cui affidarsi ciecamente, che accettino qualunque richiesta di budget senza batter ciglio, e che siano disposti ad eleggervi al contempo project manager, revisori di progetto e analisti del ROI.

In attesa della risposta passerei quindi all’ultimo punto dell’infografica: il social curriculum può davvero favorire la ricerca di impiego? A dar fiducia ai dati forniti direi di sì: lo scorso anno l’89% degli head hunter ha effettuato assunzioni tramite Linkedin almeno una volta, il 25% lo ha fatto attraverso Facebook, il 15% per mezzo di Twitter. C’è da scommettere che gran parte dei candidati vincenti avesse generosamente disseminato lungo gli account social la bella copia del proprio modulo curriculum europeo.

Curiosità: chi di voi ha già pubblicato un social curriculum, magari Europass? E poi: vi è mai capitato davvero di incontrare un dirigente che eroga finanziamenti marketing senza obiettare?

Twitter, politica e comunicazione: il punto di svolta.

Twitter offre alla politica l’opportunità di esaltare la comunicazione, guidare l’informazione, generare consenso e persino elaborare proiezioni.

È sorprendente come Twitter, ormai uno dei più praticati strumenti di comunicazione di massa, rimanga oggetto di giudizi fortemente contrastanti: c’è chi ne incensa le capacità di condizionamento e penetrazione sociale, e c’è chi lo considera ancora immaturo, anche perché obiettivamente poco diffuso.

Ad esempio secondo alcuni pur autorevoli opinionisti Twitter e gli altri social media sarebbero addirittura inefficaci in politica, come dimostrerebbe il risultato delle scorse primarie del Partito Democratico. Tanto che a fine novembre alcuni blog titolavano:

  1. Bersani vince e perdono i social network“;
  2. Si afferma il candidato che ha comunicato di meno“;
  3. I social media non smuovono un voto“.

Usando lo stesso esempio (le primarie del PD), ma affidandosi a calcoli del ROI evidentemente più convincenti, sempre a novembre i sostenitori di Twitter esprimevano valutazioni diametralmente opposte:

  1. È vero che non ha vinto le primarie, ma Renzi è diventato un personaggio di spicco; la sua fama era sostanzialmente relegata ai confini toscani prima di investire 100.000 Euro per la propaganda su Facebook e Twitter.
  2. Riservando lo stesso budget a spot televisivi e cartellonistica il “rottamatore” difficilmente sarebbe riuscito ad ottenere pari visibilità e, di conseguenza, a raccogliere un milione di consensi su tre milioni di voti.

Twitter ed il valore nella comunicazione politica

Al di là di considerazioni estemporanee e fantasiose, tutti noi sappiamo che la notevole influenza dei nuovi media sull’opinione pubblica è in realtà un fatto inconfutabile. Meno definiti e forse poco conosciuti sono invece i molteplici ruoli svolti da Twitter sulla scena politica. E chissà che non sia proprio questa la causa di giudizi tanto discordanti.

Non dire Twitter se non ce l’hai nel sacco.

Twitter costituisce per la politica una ricca fonte di opportunità: rappresentanza presso altri media (vecchi e nuovi), vicinanza e collaborazione con l’elettorato, analisi di sentiment e notorietà, e chi più ne ha più ne twitta. Ma perché possa rivelarsi come strumento di comunicazione davvero efficace, in grado di agevolare fortemente anche la campagna elettorale dalle minori risorse finanziarie, credo sia necessario il verificarsi di due condizioni:

  1. deve funzionare come ingranaggio di una strategia di marketing “integrato”, che coinvolga anche i media tradizionali ed in particolare il più potente (la televisione);
  2. deve veicolare argomenti intrinsecamente validi e credibili.

Il primo punto merita secondo me pieno approfondimento attraverso i prossimi paragrafi. Il secondo invece è scontato e ampiamente condiviso: Twitter ovviamente non può fare miracoli, e tanto meno incrementare il consenso, se un’agenda programmatica (Grillo, M5S: “ADSL gratis per tutti”) contiene impegni che si confondono con la satira (Albanese, Qualunquemente: “Più pilu per tutti“), o se un grido di guerra (Renzi: “Rottamare il vecchio“) è rivolto agli apparati del (proprio) partito e non contro un avversario politico.

Twitter come PR, non solo digital.

Tra i compiti più frequentemente assegnati a Twitter c’è la gestione dei rapporti con gli operatori dell’informazione. Grazie alle sue capacità di sintesi e risonanza può infatti svolgere la stessa funzione di un ufficio stampa, in molti casi persino sostituendosi al personale ed alle complesse strutture di un’agenzia di pubbliche relazioni (locali arredati, linee telefoniche ed impiegati).

Un esempio concreto di come questa opportunità venga già da tempo sfruttata in politica è rappresentato dalle dichiarazioni pubbliche formulate, appunto, cinguettando: che si tratti di velenose considerazioni sui concorrenti, slogan di partito o divulgazione di punti programmatici, gli argomenti che fanno notizia vengono puntualmente ripresi da TG e quotidiani cartacei. Proprio come succede con i tradizionali comunicati lanciati dai PR, solo più velocemente.

Tra l’altro Twitter può persino proporsi come mezzo di comunicazione privata e diretta: con un semplice DM permette di segnalare un’iniziativa o proporre un’intervista anche a quei giornalisti di cui non si possiedono i contatti (i cui account sono invece pubblici e facilmente reperibili).

La TV in 140 caratteri.

A farmi prendere definitivamente atto che gli utilizzatori di Twitter sono inguaribili teledipendenti è stata un’autorevole indagine statistica di cui si è parlato in un post dedicato ai social media.

Secondo quello studio un terzo dei #trend più popolari è originato dai programmi TV. Il fenomeno si intensifica in tempo di propaganda elettorale: subito dopo conferenze e dibattiti, la politica raggiunge audience online estremamente elevate (è il caso ad esempio della recente puntata di #serviziopubblico con Berlusconi).

Meno discusso ma probabilmente più significativo è il fenomeno inverso: col tempo spettatori e giornalisti sono diventati “twitterdipendenti”. Nei mesi che precedono le votazioni i media sono affamati di notizie: del continuo flusso di informazione che percorre trasversalmente televisioni, radio, quotidiani cartacei e blog, la principale fonte di novità in tema di politica è sempre più spesso Twitter.

Il dono dell’ubiquità.

Un tempo era privilegio di pochi partecipare con una telefonata fuori programma ad una trasmissione in diretta TV (batta un colpo chi non ricorda gli inaspettati interventi di Berlusconi). Ora quella facoltà appartiene a qualunque esponente di rilievo dei partiti, grazie a Twitter.

Per un leader è cioè possibile partecipare ad un talk show pur non essendo ospite degli studi: basta lanciare un tweet perché il contenuto venga immediatamente citato dal conduttore. Il quale se da un canto si presta in questo modo come indipendente portavoce, dall’altro può perfino essere percepito dagli spettatori come portatore di advocacy advertising.

Lo stesso può dirsi per gli appuntamenti quotidiani dell’informazione televisiva. Se fino a ieri era compito difficile delle redazioni riportare nella stessa edizione del telegiornale le reazioni ad un servizio o ad un’intervista, oggi a loro basta sfogliare gli account Twitter dei politici interessati per contestualizzare – in pochi istanti – eventuali espressioni del diritto di replica.

Qui il dibattito lo conduco io.

Da quanto ci siamo detti fino a questo momento scaturisce un’ulteriore preziosa opportunità per quei responsabili di partito che sappiano e vogliano sfruttare Twitter al meglio durante la campagna elettorale: indirizzare l’informazione, proponendo con opportuna costanza messaggi ed argomenti di discussione che catturino continuamente l’attenzione mediatica.

La domanda è lecita: non è quello che già sta facendo, ad esempio, l’esperto ed abile Berlusconi attraverso le frequenti interviste su radio, TV e quotidiani? Certo, ma è vero che non tutti sono in grado di catalizzare con pari disinvoltura l’attenzione dei media tradizionali, o di mobilitare giornalisti e troupe televisive con lo schioccare delle dita.

L’account Twitter, invece, può permetterselo chiunque. Meglio però aprirlo col supporto di uno specialista particolarmente in gamba ed esperto, per non incorrere in quelle ingenuità che hanno caratterizzato i primi cinguettii dell’oramai seguitissimo @SenatoreMonti. Leggerezze che, a mio avviso, se pur in misura minima hanno comunque scalfito l’autorevolezza del personaggio, se non altro agli occhi degli interlocutori più “social”.

Metriche, analisi e previsioni.

È noto che i sondaggi rappresentano un tool indispensabile per partiti e movimenti politici: forniscono il “ROI” immediato, consentendo variazioni in corso d’opera delle modalità, e talvolta degli stessi contenuti, che caratterizzano la campagna elettorale. I rilevamenti statistici hanno però un costo, non sempre sostenibile.

Fortunatamente Twitter, secondo numerose ed autorevoli fonti, può essere anche impiegato per valutare l’andamento di una competizione politica e persino per prevederne i risultati. Come è successo con le ultime elezioni tedesche, le presidenziali francesi del 2012 e la contesa tra Obama e Romney. In quest’ultimo caso a formulare azzeccatissime proiezioni è stato il gruppo di analisti – che si fa chiamare “Voices from Blogs” – dell’Università degli Studi di Milano.

Naturalmente i frequentatori italiani di Twitter – oltre tre milioni secondo gli studi più recenti – non sono rappresentativi dell’intera popolazione. E da questo ne consegue che non è sufficiente fondare previsioni su valutazioni quantitative, come il numero di tweet, retweet e follower. È necessario incrociare quelle informazioni con i dati qualitativi, secondo metodi analitici che si vanno sempre più affinando ed affermando (ne parleremo magari più dettagliatamente in un altro post).

Non è tuttavia indispensabile ricorrere a complessi calcoli per sfruttare i preziosi spunti comunque offerti da Twitter. Ad esempio un leader che voglia sondare l’impatto delle proprie dichiarazioni sull’elettorato può ricorrere ai trend. E chissà che non l’abbiano già fatto i massimi rappresentanti delle coalizioni di centro, destra e sinistra, per limare programmi e promesse. A proposito: ma l’IMU sulla prima casa è o non è una tassa insostituibile, come sosteneva all’esordio in politica il premier uscente?

Conclusioni.

Sembra che Twitter stia alla politica come il cacio sui maccheroni, se conveniamo sull’efficacia dei diversi tipi di applicazione che ho citato in questo post: efficiente ufficio stampa, autorevole rappresentanza presso TV ed altri media tradizionali, costante fonte di informazione e divulgazione, economico quanto preciso sistema statistico, strumento di engagement e recruitment degli elettori, tool per l’analisi di ROI e KPI, e perfino piattaforma (traslata dai social aziendali) per la pratica di sondaggi, co-marketing, co-creazione e Web monitoring.

In realtà credo che solo alcune di quelle potenzialità si siano già consapevolmente espresse durante la campagna elettorale. Complici la diffidenza, talvolta l’incompetenza e chissà quali altre dinamiche – legittime o meno – della politica italiana. Non ultima la scarsa propensione ad innovare se stessa, da più parti denunciata.

Ma per le votazioni c’è ancora un mese di tempo: sono certo che fino ad allora Twitter sarà capace di sorprenderci, premiando più espressamente quei leader che si saranno mostrati in grado di sfruttare al meglio ogni singola arma resa disponibile dal più versatile, e forse più potente, tra i social media esistenti.

Social Media Marketing: il futuro secondo Nielsen

Il Social Media Marketing cambia in fretta: la ricerca di Nielsen sul 2012 regala straordinari suggerimenti per gli anni che verranno. | SMM

Il rapporto sul Social Media Marketing appena pubblicato da Nielsen è un gran bel regalo di Natale, veramente prezioso: capace in poche pagine di mettere subito in chiaro caratteristiche ed evoluzioni registrate nel 2012, senza tirarsela troppo svela agli operatori tendenze ed opportunità per l’anno prossimo e per quelli a venire.

La ricerca punta sostanzialmente a dare risposta a tre domande:

  1. Cosa guida la crescita dei luoghi di aggregazione online?
  2. Come vengono usati Facebook, Twitter, Google+, Pinterest e compagnia bella?
  3. In quale misura oggi incidono i Social media sul marketing?

Curiosi, eh? Ok, partiamo subito! Ma non senza una precisazione: pur avendo valore globale, l’analisi dell’agenzia statunitense si basa prevalentemente – non esclusivamente – su sondaggi e statistiche elaborate in Nord America nel corso dell’ultimo anno; è giusto saperlo.

Dettaglio infografica Social Media Marketing

Mobile e proliferazione: come cresce il Social Media Marketing.

Il Web (2.0 ed oltre) non è più in fasce: è oramai parte integrante della vita quotidiana. Ed il fenomeno non rallenta, anzi: è in rapidissima crescita. Basti pensare che, in media, il tempo trascorso dalla gente sui network online è passato da 88 a 121 minuti in 12 mesi.

Le persone tendono a passare sempre più tempo al computer? Niente di più falso: per pubblicare tweet e aggiornamenti di stato gli strumenti prediletti dalle nuove generazioni sono tablet e smartphone, che registrano un clamoroso + 82/85%. Pare incredibile, ma lo dice Nielsen (che non è una divinità, però gode di discreta autorevolezza): l’impiego dei PC è sempre meno frequente (- 4% fino allo scorso luglio).

La tecnologia mobile è dunque il volano dei Social media: il marketing dovrà tenerne conto, pena perdere il treno (ad alta velocità, per di più). Ma l’SMM dovrà anche riservare un occhio di riguardo ai nuovi canali social: sono proprio loro che attraggono – è ad esempio il caso di Pinterest – sempre nuove fasce di utenti.

Facciamo un po’ di hit-parade!

Nonostante il vertiginoso trend degli smartphone, desktop e notebook restano ancora (per poco?) le vie di accesso più frequentate (61%); ma per accedere a cosa? Sui PC sono in crescita Twitter, WordPress, Pinterest, Google+ (che, solo per merito della sua giovane età, segna un sonante + 80%), Tumblr e Wikia; scendono invece Facebook e Blogger.

Ma è in mobilità che gli indici positivi sono sorprendenti: + 85/88% per Facebook, + 118 Foursquare e + 134/140% Twitter. Sale persino MySpace, altrove dato oramai per spacciato. In linea con la (fin troppo) diffusa attenzione rivolta a Pinterest, Nielsen sostiene che il neonato network è fra quelli col maggior potenziale: le percentuali sui dati di accesso wireless si misurano con numeri a quattro cifre.

Il trend è favorito dal nuovo bacino d’utenza che Pinterest è riuscito a centrare: le donne.  Rispetto agli uomini le rappresentanti del gentil sesso che pubblicano foto ed infografiche sono almeno il doppio, in alcuni casi persino il triplo. Indipendentemente dallo strumento utilizzato: tablet, computer, telefoni intelligenti e laptop.

Dove, come e perché si usano i nuovi media?

Questa parte del sondaggio è tra le più divertenti: grazie all’agenzia di ricerche statistiche nordamericana ho scoperto di non essere il solo a sfogliare Facebook o a cinguettare su Twitter quando sono in bagno (in età tra i 18 e i 24 anni lo fa almeno una persona su tre). Più si sale con l’anagrafe e più diventa frequente l’utilizzo dei network sul luogo di lavoro.

Arrivano poi altri dati che certamente più di questi interessano chi si occupa di Social Media Marketing. Come ad esempio il perché si resta connessi: la maggior parte della gente, ed in specie le donne, lo fa per coltivare l’opportunità di intrecciare nuove amicizie nella vita reale.

In percentuale decrescente le ragioni che spingono gli utenti a frequentare i social media sono “il tenersi aggiornati”, l’allargare la cerchia di conoscenze, il favorire rapporti di lavoro. Curiosità: soltanto il 6% degli utenti – e tra questi c’è sicuramente qualcuno di mia conoscenza – è disposto ad accettare qualsiasi richiesta di contatto, da chiunque provenga.

La televisione diventa sociale.

Il Social Media Marketing dovrà tenere debitamente conto di altri due trend preminenti. Il primo lo conosciamo tutti, per quanto si faccia fatica a razionalizzarlo: a motivare l’interazione online sono soprattutto i programmi TV. Pensate: un terzo di tutti i tweet è in qualche modo legato ai palinsesti del piccolo schermo.

Non basta: il 38% dei possessori di smartphone, ed il 41% di chi possiede un tablet, frequenta il Web mentre guarda il TG, un film, un documentario o la pubblicità. Tantissimi di loro fanno acquisti (il 45% di chi ha un iPad!), visitano i network, cercano informazioni correlate o accedono ad offerte annunciate in TV.

La seconda considerevole tendenza è il cosiddetto “social care” (alla cui molteplice valenza abbiamo accennato in tema di Facebook aziendale). Ebbene: pare che il 47% degli utenti dei nuovi media faccia ricorso ai servizi di assistenza forniti dalle imprese attraverso i social media (addirittura un giovane su tre preferisce questa soluzione al contatto telefonico).

Il canale più utilizzato per praticare il social care è senz’altro Facebook, tanto attraverso le pagine aziendali tanto quelle personali. Seguono – a molte lunghezze di distanza – i blog istituzionali dei brand, Twitter, Youtube ed i blog non direttamente legati alle imprese.

Più engagement che advertisement.

Se gli amanti del SEA si stavano leccando i baffi è bene che smettano subito: gli utenti dei social media non apprezzano la pubblicità. Peggio: il 33% la considera più sgradita di quella che si incontra comunemente in altri luoghi online. E non è finita!

Sempre a detta di Nielsen, coloro che cliccano “Mi piace” su di un messaggio promozionale non superano il 26%. La percentuale scende ulteriormente con chi condivide gli ADS (15%), mentre le conversioni vere e proprie arrivano in media al 14%.

Se i Like rappresentano dunque l’azione più diffusa in presenza di annunci commerciali, viene confermato un principio già ampiamente condiviso nell’ambiente del Social Media Marketing: engagement e branding sono gli obiettivi maggiormente papabili, e per i quali con maggiore probabilità il ROI sarà positivo.

Facciamo i conti. Con l’era dei consumatori sociali.

Cosa c’è da imparare dai dati forniti dall’azienda statunitense? Diverse cose, a mio avviso. Innanzitutto nessuno più dovrebbe potersi illudere di praticare pubblicità in TV senza rendere conto al Social Media Marketing, senza cioè ricorrere a quel “marketing integrato” che sempre più agenzie adottano come principio guida (un esempio è dato dalla campagna Coca Cola / Skyfall, curata peraltro da una nota agenzia italiana).

Sembra oramai indispensabile prevedere e, meglio, assecondare gli effetti di uno spot in TV: un utente Twitter su tre è lì pronto sul divano di casa a condividere e commentare con i follower (che invece sono al lavoro, a sciare, o seduti sul water) le pubblicità passate sullo schermo. Basta saperlo, e basta quindi conoscere quale straordinaria capacità di amplificazione contraddistingue la categoria del “social consumer” rispetto ad un messaggio promozionale televisivo opportunamente predisposto. Mica noccioline.

Mobile e proliferazione hanno poi dal canto loro altri significativi portati. Vedo ad esempio nel tema della localizzazione uno dei principali riferimenti per i futuri marketer. Ma anche la capacità di porsi criticamente rispetto ai canali social più affermati, per non correre il rischio di sottovalutare nuovi trend ed ulteriori opportunità (ok, ok, di Pinterest se ne parla pure troppo: sono il primo a pensarlo).

Ma gira che ti rigira si torna sempre al passaparola 2.0. Il report che abbiamo appena finito di snocciolare si chiude con una enciclica: il WOM è la chiave, perché sempre più persone si rivolgono ai social media per informarsi su brand, prodotti e servizi, e per decidersi definitivamente all’acquisto.

È vero: la ricerca rivela che un quarto dei consumatori (duepuntozero) considera positivamente un banner correlato al proprio profilo personale, e questa è un’opportunità. Ma è ancora il Word of Mouth la carta vincente di un Social Media Marketing sempre più mobile, dinamico e teledipendente.

Ok, il post è finito. I più pigri possono scaricare qui, senza doversi allontanare, il documento sul Social Media Marketing 2012 di Nielsen. (PDF!!!).

Fonte.

SERP Google, cambia il layout: nuovo colpo al SEO?

La SERP Google cambia ancora aspetto: la colonna sinistra si svuota. Forse per fare ulteriore spazio ai link a pagamento. Cosa ne pensano i SEO?

SERP Google | A giugno del 2011 tanto alla prima pagina del suo motore di ricerca, quanto alla SERP, Google aveva applicato una nuova impostazione grafica. Che si caratterizzava per la presenza in alto di una barra nera contenente un menu generale, dal quale accedere alle altre applicazioni (come G+, Image Search, Calendar, Maps, Gmail ed altro).

Quella barra era condivisa da gran parte degli altri servizi di BigG: l’obiettivo era quindi uniformare il layout per garantire una comune logica d’interazione, un’esperienza d’uso coerente.

Anche sotto il profilo estetico – oltre che funzionale – la scelta non poteva dirsi certamente sbagliata: attraverso le immagini che seguono possiamo farci un’idea convincente di quanto in meglio sia cambiato il design di Google Search dal 1997 ad oggi.

Il layout della SERP Google Search nel 1997

L'interfaccia di Google nel 2012

La SERP Google cambia nuovamente interfaccia: si fa spazio al SEA?

Già da novembre di quest’anno negli USA, e da qualche giorno anche in Italia, il layout della SERP Google è cambiato nuovamente. Ed in modo sostanziale: la colonna sinistra, dov’erano collocati gli strumenti di ricerca avanzata, si svuota completamente. I tool naturalmente rimangono, ma vengono spostati in un inedito menu orizzontale.

Le opzioni Immagini, Video, Notizie, Maps e Shopping si trasferiscono in alto. Le impostazioni che permettono di circoscrivere i risultati vengono concentrate alla voce Strumenti di ricerca; il pulsante dà accesso ad un ulteriore menu a tendina che attiva gli operatori lingua, data, località ed altro.

Facciamo ricorso ad altre immagini per prendere piena consapevolezza dei cambiamenti nella SERP Google. E per evidenziare il grande spazio lasciato libero dal trasferimento dei contenuti dell’intera colonna di sinistra.

Il precedente design della SERP Google

L'interfaccia rinnovata della SERP Google

Addio all’uniformità della SERP Google.

La coerenza dell’interfaccia utente fra tutti i servizi non è più una priorità per gli ingegneri di Mountain View? Sembrerebbe sia così, se prendiamo atto del fatto che soltanto per la SERP Google ha deciso di svuotare la colonna sinistra, che continua invece a restare occupata da svariate voci nelle numerose altre applicazioni.

Delle due l’una: o il rinnovato layout interesserà presto anche Google+, News, Play, Reader, Drive e tutto il resto, oppure alla base della scelta c’è una ragione precisa: creare spazio per far posto a qualcos’altro. Cosa? Le inserzioni pubblicitarie, è lecito immaginare.

L’ipotesi è confortata dalla diffusa opinione dei SEO, secondo i quali la presenza dei link a pagamento si va facendo sempre più corposa, addirittura “invadente” per le keyword di maggior valore. C’è chi, tra gli optimizer più affermati in Italia e nel mondo, traduce il recente trend con un calo del Click Through e delle conversioni in misura del 10% nella quantità dei risultati organici.

C’è da dire che, attraverso le modifiche alla sua SERP, Google ha tutto il diritto di sperimentare soluzioni destinate ad incrementare i guadagni originati da AdWords: secondo l’ultimo resoconto di bilancio le casse della multinazionale si sono considerevolmente svuotate (certo, non al pari della colonna sinistra delle results page!).

Dunque nessuno dovrebbe sentirsi in diritto di imputare colpe a BigG. A meno che l’eventuale apparizione di ulteriori banner non finisca addirittura per squalificare l’attuale esperienza d’uso – universalmente apprezzata – e non diventi quindi motivo di scontento per gli utilizzatori del motore di ricerca. Ma siamo pronti a scommettere che, per la sua SERP, Google non se la senta di correre rischi.

Per approfondire: http://insidesearch.blogspot.it/2012/11/spiffing-up-your-search-results-page.html

SEA | Search Engine Advertising

SEA è gestione della pubblicità basata sulle keyword. Scopriamo i pro, i contro e le più recenti caratteristiche del SEA, senza rinunciare al confronto con il “concorrente” gratuito: il SEO.

SEA è una delle sigle originate dal Web marketing: indica la pubblicità praticata attraverso inserzioni – grafiche o testuali – sulle pagine dei risultati dei motori di ricerca. Nella stessa categoria rientra anche il “contextual advertising”, ovvero banner e link pubblicati su pagine e siti Internet di terze parti.
Confronto SEA - SEOLa contestualità – caratteristica comune ad entrambi i casi – consiste nel fatto che la pubblicità commissionata appare soltanto in presenza di keyword prestabilite.

Tra gli strumenti più diffusi per praticare il SEA c’è Google Adwords, di cui esistono diverse e più o meno note alternative (Bing Ads, per esempio).

Pur rientrando nella più ampia sfera operativa del SEM – attività costituzionalmente orientata all’inbound marketing – il SEA viene classificato come outbound marketing. Della diversità tra outbound e inbound MKTG abbiamo parlato estensivamente in un altro post.

Tra SEA e SEO ci passa il mare (non solo nella lingua inglese)

Il SEA viene spesso immaginato come antagonista del SEO: entrambe le tecniche di marketing sfruttano parole chiave e motori di ricerca per puntare al target più definito e circostanziato, ma il Search Engine Advertising ha natura commerciale (inserzioni a pagamento) mentre il Search Engine Optimization punta a sfruttare i link naturali, detti “organici”.

Il SEO gode di grande popolarità perché può effettivamente essere praticato a costo zero, se non altro a livello dilettantistico: online esistono infinite guide capaci di dotare gli utenti del Web degli strumenti essenziali per mettere in evidenza un sito o un profilo personale. Al contrario il SEA è caratterizzato da un approccio più complesso, certamente più ostico per gli amanti del “fai da te”.

Il Search Engine Advertising è favorito da un calcolo del ROI semplice e pragmatico, ed è inoltre capace di offrire risultati pressoché immediati. Quest’ultima caratteristica assume valore significativo nei casi in cui il tempismo risulti indispensabile. Ad esempio si immagini un e-store di telefonia che riesce ad anticipare la concorrenza portando in vetrina un nuovo ed atteso smartphone: collocando le inserzioni pubblicitarie sulle giuste keyword le vendite saranno assicurate.

Per contro il SEA è costituzionalmente effimero: i suoi effetti durano per tutta la campagna e poi svaniscono. Fatte salve spinte “cinetiche” spontanee o abilmente favorite, capaci di agevolare il customer retention. Al contrario il SEO possiede eccellenti caratteristiche di longevità: una volta riusciti a centrare stabilmente i primi posti della SERP le possibilità di retrocedere sono oggettivamente trascurabili.

I costi del Search Engine Advertising

Il prezzo di una campagna SEA varia in funzione delle disponibilità economiche: si può decidere di allocare un budget di 50 Euro e spendere un solo Euro al giorno per cinquanta giorni, o viceversa investire grandi somme sul breve – medio periodo. È il bello del PPC, termine che sempre più spesso viene utilizzato come sinonimo del Keyword Advertising.

All’inserzionista, tuttavia, più dei costi interessa il Return Of Investment: salvo finalità di marketing non direttamente correlate alle vendite, chi spende vuol conoscere il grado di redditività delle risorse finanziarie impegnate. E sotto questo punto di vista i risultati non sono sempre scontati o positivi.

Le possibilità di successo aumentano progressivamente laddove l’analisi, la progettazione e la realizzazione delle campagne vengano affidate ad operatori esperti e competenti. Coloro cioè che sono in grado di ottimizzare gli investimenti attraverso determinate misure:

  1. Esatta individuazione delle keyword e delle combinazioni più coerenti, economiche e proficue.
  2. Identificazione altrettanto precisa delle “negative keyword”, cioè di quei termini che vanno esclusi dalle ricerche (ad esempio va scongiurata qualunque correlazione tra “ancora” e link HTML se l’ambito di applicazione è costituito dagli accessori per ormeggio).
  3. Pianificazione prudente ed incrementale, così da riservare i minori investimenti iniziali ad una fase più o meno lunga di sperimentazione e verifica.
  4. Monitoraggio costante e frequente, anche al fine di cogliere nuove opportunità, perseguire trend di mercato precedentemente trascurati, riformulare le parole chiave in funzione di significative variazioni nel lessico utilizzato presso i social media.

Maggiore o minore convenienza: un mito da sfatare

Il SEA è più costoso del SEO? Assolutamente no, a meno di voler affidare l’ottimizzazione di un sito ad un giovane nipote che col Web ci smanetta parecchio e che si accontenta di un simpatico regalo.

Se consideriamo che il keyword advertising richiede minor impegno in termini di tempo e risorse umane, che il Search Engine Optimization necessita invece di una più complessa e articolata serie di attività, se pensiamo che il primo offre riscontri immediati ed affidabili (ROI) mentre il secondo si caratterizza per un più alto indice di aleatorietà, potremmo persino arrivare alla conclusione opposta: il SEA è conveniente. Tanto più che i risultati organici risultano sempre meno efficaci a fronte del tendenziale aumento delle inserzioni pubblicitarie nelle pagine dei risultati dei motori di ricerca.

In realtà SEA e SEO possono risultare più o meno costosi in funzione del target e delle opportunità: solo caso per caso è possibile stabilire la maggiore o minore convenienza economica dell’una e dell’altra attività SEM.

Il SEA in costante ascesa?

Bisogna fare attenzione a non farsi ingannare dalle apparenze: le aziende proprietarie dei motori di ricerca, e le Web agency specializzate in SEA, hanno tutto l’interesse a promuovere il Search Engine Advertising e a disegnarlo pregiudizialmente come vantaggioso. Basti pensare ad alcune ricerche statistiche anche recenti, commissionate da Google & Co., secondo le quali i click sugli annunci a pagamento risultano sempre più frequenti, ricorrenti e redditizi rispetto ai risultati organici.

In realtà l’asserzione è veritiera soltanto se i dati si riferiscono alle ricerche specificamente orientate al marchio. Ad esempio: se le query sono destinate a trovare “il miglior notebook al mondo”, i link “gratuiti” saranno di gran lunga preferiti agli annunci pubblicitari. Al contrario chi cerchi “il miglior computer Dell” sarà attratto da inserzioni commissionate dal produttore, ben più competente di altri nel suggerire la configurazione dal miglior rapporto qualità/prezzo.

Insomma: il Search Engine Advertising è uno strumento affidabile e ragionevolmente costoso se impiegato con oculatezza. Rispetto al Search Engine Optimization non può definirsi né più conveniente né meno efficace: il SEA è, semplicemente, la migliore soluzione rispetto a specifiche esigenze e determinati contesti di marketing.