Il Social media marketing può entrare in conflitto con “equilibri di potere” interni alle aziende? Il caso della politica.
Come fanno il Social media marketing, la politica ed il malcostume, a trovare spazio nello stesso post? Potrei cavarmela sostenendo che, pur differenti, i tre argomenti sono tutti di forte attualità: la politica riaffiora grazie alla nuova campagna elettorale, sempre più praticata attraverso Facebook e Twitter; il malcostume – a vent’anni da “mani pulite” – torna padrone delle cronache (politiche); finalmente (in Parlamento) si riprende a discutere di “Agenda digitale”, oggi addirittura considerata primaria opportunità di riscatto per l’intera economia italiana.
In realtà l’obiettivo di questo post – tenuto nel cassetto per diverso tempo – è affrontare assieme i diversi temi per indagare sui freni alla definitiva affermazione del digital marketing in un Paese, come il nostro, dove un terzo della popolazione frequenta Facebook. E per scoprire se – come mi auguro non sia – dentro i grandi numeri che ancora caratterizzano il tradizionale mercato pubblicitario nazionale si nascondano ulteriori impedimenti e antagonismi.
Naturalmente per raggiungere il fine cercherò di mettere in gioco argomenti solidi, obiettivamente riscontrabili. Come ad esempio lo stato attuale del Social media marketing nel mondo delle nostre imprese, secondo il parere del più illustre opinionista che un marketer potrebbe interpellare.
Le aziende amano i nuovi strumenti di comunicazione
Da una statistica, condotta per conto di Google su di un vasto campione di ditte europee, lo scorso maggio emergeva un dato sorprendente: l’83% dei dirigenti italiani utilizza i social media per esigenze professionali. E molti senior manager li considerano perfino indispensabili, perché capaci di generare innovazione, semplificare i contatti, favorire la produttività e ridurre il carico di lavoro.
Per contro il grado di “apertura” al pubblico delle aziende italiane attraverso canali come Google+, Facebook e Twitter non è altrettanto entusiasmante, anche se per fortuna il trend resta positivo. Al riguardo gli autori ed i committenti delle numerose ricerche di mercato sono ottimisti e concordano: il bicchiere è mezzo pieno.
Come nel caso dell’analisi pubblicata a metà marzo dalla IULM, la Libera Università di Lingue e Comunicazione (autrice dell’infografica riportata in basso).
Il Social media marketing sempre più praticato dalle aziende
Secondo la ricerca della IULM nel 2011 il 50% delle aziende ha aperto un blog o ha attivato almeno un account su Facebook, Youtube, Flicker e Linkedin. C’è da scommettere che ad oggi la percentuale si discosti ancora di più dai brutti dati registrati nel 2010, quando soltanto il 32% del campione intervistato dichiarava di far ricorso al Social media marketing.
Lo stesso sondaggio, come sottolineano gli autori, rivela però due aspetti poco entusiasmanti:
- l’adozione dei moderni mezzi di comunicazione aumenta solo tra le piccole aziende, dove si passa in un solo anno da 10 a 43 punti percentuali. Davvero modesto il progresso registrato invece nelle grandi imprese: appena lo 0,6%.
- L’effettivo utilizzo dei social media, caratterizzato da reale impegno in termini di risorse umane e finanziarie, è bassissimo: soltanto l’1,16% degli amministratori pratica il Social media marketing in modo continuativo, strategico, strutturato.
Il direttore scientifico del master addirittura afferma: “i risultati ottenuti testimoniano anche come essi (i “social”, ndr) siano ancora molto spesso gestiti in maniera un po’ improvvisata e poco consapevole delle logiche comunicative e dei linguaggi propri di ciascuno di tali canali.”
I conti non tornano
Ma come è possibile – ci si potrebbe chiedere – che i manager dei brand più affermati utilizzino per lavoro le piattaforme Web di comunicazione, la messaggistica istantanea di Skype o Google+ e le reti private di Linkedin, per poi mostrarsi timidi e timorosi quando c’è da dotare l’impresa di pubblici strumenti sociali? Perché per metà dei casi si mostrano rinunciatari di fronte alle riconosciute opportunità di ottimizzare le dinamiche aziendali, migliorare brand awareness e reputation, gestire buzz e WOM, e perfino cogliere nuove opportunità di business attraverso l’analisi concorrenziale, i sondaggi e la verifica della brand equity che i feedback degli utenti consentono?
Per le piccole attività imprenditoriali l’atteggiamento appare in qualche modo giustificabile: il dirigente può chiedere ad amici e parenti di aprire la pagina Facebook della ditta, ma difficilmente potrà ricorrere ad un Social media manager per poi gestirla professionalmente. Per le grandi e medie imprese la spesa sarebbe invece pienamente sostenibile, soprattutto a fronte dei notevoli risparmi generati dalla concomitante sospensione di omologhe prassi di outbound e traditional marketing.
Dunque i conti non tornano. A meno di guardare più a fondo proprio in quelle dinamiche aziendali che si vorrebbero – per il bene dell’intera economia italiana – più snelle, versatili, innovatrici e fonti di nuovi sbocchi occupazionali.
I freni dell’evoluzione
Possiamo prendere atto: secondo l’illustre parere di Google è da sfatarsi l’ipotesi che ad ostacolare i social media presso le grandi aziende sia la diffidenza culturale dei dirigenti di “vecchia generazione”. Anzi: i senior manager ne apprezzano apertamente l’efficacia più di chiunque altro.
Possiamo inoltre dare per scontata la convenienza economica dell’inbound marketing rispetto a quello tradizionale, tanto più che ad esso sempre più di frequente ricorrono le piccole imprese, costituzionalmente sensibili al rapporto qualità/prezzo ed impossibilitate a praticare i “vecchi” canali pubblicitari, come televisioni, radio, riviste (l’outbound MKTG, per intenderci).
Dunque: visto che le aziende, soprattutto le più importanti, apprezzano Web e Social media marketing come fattivi ed economici strumenti di promozione, perché non ne fanno ricorso in massa?
Non ho testimonianza diretta dell’eventuale presenza, nelle grosse imprese, di fenomeni di malcostume. Ritengo però moderatamente affidabile la teoria secondo la quale la politica è lo specchio della società, o viceversa. Almeno in quegli ambienti dove circola molto danaro.
Nelle multinazionali il volume degli investimenti pubblicitari in spot e display advertising è ancora gigantesco, rispetto ad una barcollante economia di mercato: perché considerare illegittimo il sospetto che non sia soltanto la dedizione al marchio a motivare, anche solo in rari casi, le scelte di chi gestisce quei budget?
E ancora: perché – nella diffusa consapevolezza dell’efficacia del Web – il 50% dei dirigenti che usa per se stesso i nuovi media non vede invece di buon occhio un diverso, più attento, diversificato, innovativo e redditizio utilizzo delle risorse finanziarie destinate al marketing?
Una precisazione, per concludere: in tutte le mie occasioni professionali non ho mai avuto ragione di dubitare della buona fede dei miei interlocutori. Ma è pur vero che fino ad oggi ho incontrato solo realtà moderne e costituzionalmente rivolte all’innovazione. Mi chiedo quindi se la felice esperienza potrà replicarsi anche quando dovesse capitarmi di gestire il Social media marketing di aziende meno dinamiche. O persino, per restare in tema con la politica, “burocratizzate”.