Twitter, politica e comunicazione: il punto di svolta.

Twitter offre alla politica l’opportunità di esaltare la comunicazione, guidare l’informazione, generare consenso e persino elaborare proiezioni.

È sorprendente come Twitter, ormai uno dei più praticati strumenti di comunicazione di massa, rimanga oggetto di giudizi fortemente contrastanti: c’è chi ne incensa le capacità di condizionamento e penetrazione sociale, e c’è chi lo considera ancora immaturo, anche perché obiettivamente poco diffuso.

Ad esempio secondo alcuni pur autorevoli opinionisti Twitter e gli altri social media sarebbero addirittura inefficaci in politica, come dimostrerebbe il risultato delle scorse primarie del Partito Democratico. Tanto che a fine novembre alcuni blog titolavano:

  1. Bersani vince e perdono i social network“;
  2. Si afferma il candidato che ha comunicato di meno“;
  3. I social media non smuovono un voto“.

Usando lo stesso esempio (le primarie del PD), ma affidandosi a calcoli del ROI evidentemente più convincenti, sempre a novembre i sostenitori di Twitter esprimevano valutazioni diametralmente opposte:

  1. È vero che non ha vinto le primarie, ma Renzi è diventato un personaggio di spicco; la sua fama era sostanzialmente relegata ai confini toscani prima di investire 100.000 Euro per la propaganda su Facebook e Twitter.
  2. Riservando lo stesso budget a spot televisivi e cartellonistica il “rottamatore” difficilmente sarebbe riuscito ad ottenere pari visibilità e, di conseguenza, a raccogliere un milione di consensi su tre milioni di voti.

Twitter ed il valore nella comunicazione politica

Al di là di considerazioni estemporanee e fantasiose, tutti noi sappiamo che la notevole influenza dei nuovi media sull’opinione pubblica è in realtà un fatto inconfutabile. Meno definiti e forse poco conosciuti sono invece i molteplici ruoli svolti da Twitter sulla scena politica. E chissà che non sia proprio questa la causa di giudizi tanto discordanti.

Non dire Twitter se non ce l’hai nel sacco.

Twitter costituisce per la politica una ricca fonte di opportunità: rappresentanza presso altri media (vecchi e nuovi), vicinanza e collaborazione con l’elettorato, analisi di sentiment e notorietà, e chi più ne ha più ne twitta. Ma perché possa rivelarsi come strumento di comunicazione davvero efficace, in grado di agevolare fortemente anche la campagna elettorale dalle minori risorse finanziarie, credo sia necessario il verificarsi di due condizioni:

  1. deve funzionare come ingranaggio di una strategia di marketing “integrato”, che coinvolga anche i media tradizionali ed in particolare il più potente (la televisione);
  2. deve veicolare argomenti intrinsecamente validi e credibili.

Il primo punto merita secondo me pieno approfondimento attraverso i prossimi paragrafi. Il secondo invece è scontato e ampiamente condiviso: Twitter ovviamente non può fare miracoli, e tanto meno incrementare il consenso, se un’agenda programmatica (Grillo, M5S: “ADSL gratis per tutti”) contiene impegni che si confondono con la satira (Albanese, Qualunquemente: “Più pilu per tutti“), o se un grido di guerra (Renzi: “Rottamare il vecchio“) è rivolto agli apparati del (proprio) partito e non contro un avversario politico.

Twitter come PR, non solo digital.

Tra i compiti più frequentemente assegnati a Twitter c’è la gestione dei rapporti con gli operatori dell’informazione. Grazie alle sue capacità di sintesi e risonanza può infatti svolgere la stessa funzione di un ufficio stampa, in molti casi persino sostituendosi al personale ed alle complesse strutture di un’agenzia di pubbliche relazioni (locali arredati, linee telefoniche ed impiegati).

Un esempio concreto di come questa opportunità venga già da tempo sfruttata in politica è rappresentato dalle dichiarazioni pubbliche formulate, appunto, cinguettando: che si tratti di velenose considerazioni sui concorrenti, slogan di partito o divulgazione di punti programmatici, gli argomenti che fanno notizia vengono puntualmente ripresi da TG e quotidiani cartacei. Proprio come succede con i tradizionali comunicati lanciati dai PR, solo più velocemente.

Tra l’altro Twitter può persino proporsi come mezzo di comunicazione privata e diretta: con un semplice DM permette di segnalare un’iniziativa o proporre un’intervista anche a quei giornalisti di cui non si possiedono i contatti (i cui account sono invece pubblici e facilmente reperibili).

La TV in 140 caratteri.

A farmi prendere definitivamente atto che gli utilizzatori di Twitter sono inguaribili teledipendenti è stata un’autorevole indagine statistica di cui si è parlato in un post dedicato ai social media.

Secondo quello studio un terzo dei #trend più popolari è originato dai programmi TV. Il fenomeno si intensifica in tempo di propaganda elettorale: subito dopo conferenze e dibattiti, la politica raggiunge audience online estremamente elevate (è il caso ad esempio della recente puntata di #serviziopubblico con Berlusconi).

Meno discusso ma probabilmente più significativo è il fenomeno inverso: col tempo spettatori e giornalisti sono diventati “twitterdipendenti”. Nei mesi che precedono le votazioni i media sono affamati di notizie: del continuo flusso di informazione che percorre trasversalmente televisioni, radio, quotidiani cartacei e blog, la principale fonte di novità in tema di politica è sempre più spesso Twitter.

Il dono dell’ubiquità.

Un tempo era privilegio di pochi partecipare con una telefonata fuori programma ad una trasmissione in diretta TV (batta un colpo chi non ricorda gli inaspettati interventi di Berlusconi). Ora quella facoltà appartiene a qualunque esponente di rilievo dei partiti, grazie a Twitter.

Per un leader è cioè possibile partecipare ad un talk show pur non essendo ospite degli studi: basta lanciare un tweet perché il contenuto venga immediatamente citato dal conduttore. Il quale se da un canto si presta in questo modo come indipendente portavoce, dall’altro può perfino essere percepito dagli spettatori come portatore di advocacy advertising.

Lo stesso può dirsi per gli appuntamenti quotidiani dell’informazione televisiva. Se fino a ieri era compito difficile delle redazioni riportare nella stessa edizione del telegiornale le reazioni ad un servizio o ad un’intervista, oggi a loro basta sfogliare gli account Twitter dei politici interessati per contestualizzare – in pochi istanti – eventuali espressioni del diritto di replica.

Qui il dibattito lo conduco io.

Da quanto ci siamo detti fino a questo momento scaturisce un’ulteriore preziosa opportunità per quei responsabili di partito che sappiano e vogliano sfruttare Twitter al meglio durante la campagna elettorale: indirizzare l’informazione, proponendo con opportuna costanza messaggi ed argomenti di discussione che catturino continuamente l’attenzione mediatica.

La domanda è lecita: non è quello che già sta facendo, ad esempio, l’esperto ed abile Berlusconi attraverso le frequenti interviste su radio, TV e quotidiani? Certo, ma è vero che non tutti sono in grado di catalizzare con pari disinvoltura l’attenzione dei media tradizionali, o di mobilitare giornalisti e troupe televisive con lo schioccare delle dita.

L’account Twitter, invece, può permetterselo chiunque. Meglio però aprirlo col supporto di uno specialista particolarmente in gamba ed esperto, per non incorrere in quelle ingenuità che hanno caratterizzato i primi cinguettii dell’oramai seguitissimo @SenatoreMonti. Leggerezze che, a mio avviso, se pur in misura minima hanno comunque scalfito l’autorevolezza del personaggio, se non altro agli occhi degli interlocutori più “social”.

Metriche, analisi e previsioni.

È noto che i sondaggi rappresentano un tool indispensabile per partiti e movimenti politici: forniscono il “ROI” immediato, consentendo variazioni in corso d’opera delle modalità, e talvolta degli stessi contenuti, che caratterizzano la campagna elettorale. I rilevamenti statistici hanno però un costo, non sempre sostenibile.

Fortunatamente Twitter, secondo numerose ed autorevoli fonti, può essere anche impiegato per valutare l’andamento di una competizione politica e persino per prevederne i risultati. Come è successo con le ultime elezioni tedesche, le presidenziali francesi del 2012 e la contesa tra Obama e Romney. In quest’ultimo caso a formulare azzeccatissime proiezioni è stato il gruppo di analisti – che si fa chiamare “Voices from Blogs” – dell’Università degli Studi di Milano.

Naturalmente i frequentatori italiani di Twitter – oltre tre milioni secondo gli studi più recenti – non sono rappresentativi dell’intera popolazione. E da questo ne consegue che non è sufficiente fondare previsioni su valutazioni quantitative, come il numero di tweet, retweet e follower. È necessario incrociare quelle informazioni con i dati qualitativi, secondo metodi analitici che si vanno sempre più affinando ed affermando (ne parleremo magari più dettagliatamente in un altro post).

Non è tuttavia indispensabile ricorrere a complessi calcoli per sfruttare i preziosi spunti comunque offerti da Twitter. Ad esempio un leader che voglia sondare l’impatto delle proprie dichiarazioni sull’elettorato può ricorrere ai trend. E chissà che non l’abbiano già fatto i massimi rappresentanti delle coalizioni di centro, destra e sinistra, per limare programmi e promesse. A proposito: ma l’IMU sulla prima casa è o non è una tassa insostituibile, come sosteneva all’esordio in politica il premier uscente?

Conclusioni.

Sembra che Twitter stia alla politica come il cacio sui maccheroni, se conveniamo sull’efficacia dei diversi tipi di applicazione che ho citato in questo post: efficiente ufficio stampa, autorevole rappresentanza presso TV ed altri media tradizionali, costante fonte di informazione e divulgazione, economico quanto preciso sistema statistico, strumento di engagement e recruitment degli elettori, tool per l’analisi di ROI e KPI, e perfino piattaforma (traslata dai social aziendali) per la pratica di sondaggi, co-marketing, co-creazione e Web monitoring.

In realtà credo che solo alcune di quelle potenzialità si siano già consapevolmente espresse durante la campagna elettorale. Complici la diffidenza, talvolta l’incompetenza e chissà quali altre dinamiche – legittime o meno – della politica italiana. Non ultima la scarsa propensione ad innovare se stessa, da più parti denunciata.

Ma per le votazioni c’è ancora un mese di tempo: sono certo che fino ad allora Twitter sarà capace di sorprenderci, premiando più espressamente quei leader che si saranno mostrati in grado di sfruttare al meglio ogni singola arma resa disponibile dal più versatile, e forse più potente, tra i social media esistenti.

Social media marketing: il freno del malcostume

Il Social media marketing può entrare in conflitto con “equilibri di potere” interni alle aziende? Il caso della politica.

Come fanno il Social media marketing, la politica ed il malcostume, a trovare spazio nello stesso post? Potrei cavarmela sostenendo che, pur differenti, i tre argomenti sono tutti di forte attualità: la politica riaffiora grazie alla nuova campagna elettorale, sempre più praticata attraverso Facebook e Twitter; il malcostume – a vent’anni da “mani pulite” – torna padrone delle cronache (politiche); finalmente (in Parlamento) si riprende a discutere di “Agenda digitale”, oggi addirittura considerata primaria opportunità di riscatto per l’intera economia italiana.

In realtà l’obiettivo di questo post – tenuto nel cassetto per diverso tempo – è affrontare assieme i diversi temi per indagare sui freni alla definitiva affermazione del digital marketing in un Paese, come il nostro, dove un terzo della popolazione frequenta Facebook. E per scoprire se – come mi auguro non sia – dentro i grandi numeri che ancora caratterizzano il tradizionale mercato pubblicitario nazionale si nascondano ulteriori impedimenti e antagonismi.

Naturalmente per raggiungere il fine cercherò di mettere in gioco argomenti solidi, obiettivamente riscontrabili. Come ad esempio lo stato attuale del Social media marketing nel mondo delle nostre imprese, secondo il parere del più illustre opinionista che un marketer potrebbe interpellare.

Le aziende amano i nuovi strumenti di comunicazione

Da una statistica, condotta per conto di Google su di un vasto campione di ditte europee, lo scorso maggio emergeva un dato sorprendente: l’83% dei dirigenti italiani utilizza i social media per esigenze professionali. E molti senior manager li considerano perfino indispensabili, perché capaci di generare innovazione, semplificare i contatti, favorire la produttività e ridurre il carico di lavoro.

Per contro il grado di “apertura” al pubblico delle aziende italiane attraverso canali come Google+, Facebook e Twitter non è altrettanto entusiasmante, anche se per fortuna il trend resta positivo. Al riguardo gli autori ed i committenti delle numerose ricerche di mercato sono ottimisti e concordano: il bicchiere è mezzo pieno.

Come nel caso dell’analisi pubblicata a metà marzo dalla IULM, la Libera Università di Lingue e Comunicazione (autrice dell’infografica riportata in basso).

Infografica che illustra i progressi del Social media marketing in Italia

Il Social media marketing sempre più praticato dalle aziende

Secondo la ricerca della IULM nel 2011 il 50% delle aziende ha aperto un blog o ha attivato almeno un account su Facebook, Youtube, Flicker e Linkedin. C’è da scommettere che ad oggi la percentuale si discosti ancora di più dai brutti dati registrati nel 2010, quando soltanto il 32% del campione intervistato dichiarava di far ricorso al Social media marketing.

Lo stesso sondaggio, come sottolineano gli autori, rivela però due aspetti poco entusiasmanti:

  1. l’adozione dei moderni mezzi di comunicazione aumenta solo tra le piccole aziende, dove si passa in un solo anno da 10 a 43 punti percentuali. Davvero modesto il progresso registrato invece nelle grandi imprese: appena lo 0,6%.
  2. L’effettivo utilizzo dei social media, caratterizzato da reale impegno in termini di risorse umane e finanziarie, è bassissimo: soltanto l’1,16% degli amministratori pratica il Social media marketing in modo continuativo, strategico, strutturato.

Il direttore scientifico del master addirittura afferma: “i risultati ottenuti testimoniano anche come essi (i “social”, ndr) siano ancora molto spesso gestiti in maniera un po’ improvvisata e poco consapevole delle logiche comunicative e dei linguaggi propri di ciascuno di tali canali.

I conti non tornano

Ma come è possibile – ci si potrebbe chiedere – che i manager dei brand più affermati utilizzino per lavoro le piattaforme Web di comunicazione, la messaggistica istantanea di Skype o Google+ e le reti private di Linkedin, per poi mostrarsi timidi e timorosi quando c’è da dotare l’impresa di pubblici strumenti sociali? Perché per metà dei casi si mostrano rinunciatari di fronte alle riconosciute opportunità di ottimizzare le dinamiche aziendali, migliorare brand awareness e reputation, gestire buzz e WOM, e perfino cogliere nuove opportunità di business attraverso l’analisi concorrenziale, i sondaggi e la verifica della brand equity che i feedback degli utenti consentono?

Per le piccole attività imprenditoriali l’atteggiamento appare in qualche modo giustificabile: il dirigente può chiedere ad amici e parenti di aprire la pagina Facebook della ditta, ma difficilmente potrà ricorrere ad un Social media manager per poi gestirla professionalmente. Per le grandi e medie imprese la spesa sarebbe invece pienamente sostenibile, soprattutto a fronte dei notevoli risparmi generati dalla concomitante sospensione di omologhe prassi di outbound e traditional marketing.

Dunque i conti non tornano. A meno di guardare più a fondo proprio in quelle dinamiche aziendali che si vorrebbero – per il bene dell’intera economia italiana – più snelle, versatili, innovatrici e fonti di nuovi sbocchi occupazionali.

I freni dell’evoluzione

Possiamo prendere atto: secondo l’illustre parere di Google è da sfatarsi l’ipotesi che ad ostacolare i social media presso le grandi aziende sia la diffidenza culturale dei dirigenti di “vecchia generazione”. Anzi: i senior manager ne apprezzano apertamente l’efficacia più di chiunque altro.

Possiamo inoltre dare per scontata la convenienza economica dell’inbound marketing rispetto a quello tradizionale, tanto più che ad esso sempre più di frequente ricorrono le piccole imprese, costituzionalmente sensibili al rapporto qualità/prezzo ed impossibilitate a praticare i “vecchi” canali pubblicitari, come televisioni, radio, riviste (l’outbound MKTG, per intenderci).

Dunque: visto che le aziende, soprattutto le più importanti, apprezzano Web e Social media marketing come fattivi ed economici strumenti di promozione, perché non ne fanno ricorso in massa?

Non ho testimonianza diretta dell’eventuale presenza, nelle grosse imprese, di fenomeni di malcostume. Ritengo però moderatamente affidabile la teoria secondo la quale la politica è lo specchio della società, o viceversa. Almeno in quegli ambienti dove circola molto danaro.

Nelle multinazionali il volume degli investimenti pubblicitari in spot e display advertising è ancora gigantesco, rispetto ad una barcollante economia di mercato: perché considerare illegittimo il sospetto che non sia soltanto la dedizione al marchio a motivare, anche solo in rari casi, le scelte di chi gestisce quei budget?

E ancora: perché – nella diffusa consapevolezza dell’efficacia del Web – il 50% dei dirigenti che usa per se stesso i nuovi media non vede invece di buon occhio un diverso, più attento, diversificato, innovativo e redditizio utilizzo delle risorse finanziarie destinate al marketing?

Una precisazione, per concludere: in tutte le mie occasioni professionali non ho mai avuto ragione di dubitare della buona fede dei miei interlocutori. Ma è pur vero che fino ad oggi ho incontrato solo realtà moderne e costituzionalmente rivolte all’innovazione. Mi chiedo quindi se la felice esperienza potrà replicarsi anche quando dovesse capitarmi di gestire il Social media marketing di aziende meno dinamiche. O persino, per restare in tema con la politica, “burocratizzate”.

 

Politica Facebook: come guadagnare voti. Veri.

Politica Facebook? La campagna elettorale si vince su Internet, parola di Grillo e Nichi Vendola.

Vi siete mai chiesti quanto vale l’accoppiata politica / Facebook in termini di voti? Io me lo domando da un po’: incuriosito dal successo di partiti emergenti alle passate amministrative, vorrei riuscire a stimare le potenzialità del binomio in vista delle prossime consultazioni.

Siccome mi piace vincere facile ho cercato su Google come in libreria possibili risposte all’interrogativo, ma senza fortuna: purtroppo il tema è generalmente trascurato da sociologi e tecnici, forse a causa dello scarso interesse coltivato dalla classe dirigente. Che “per copione” è conservatrice e dunque poco incline alla pratica dei new media.

Per scoprire il risultato dell’equazione consenso elettorale / numero (e qualità) dei fan bisogna dunque rimboccarsi le maniche. Iniziamo col prendere in esame le “pagine” dei principali rappresentanti dell’arte di governo. Ne vedremo delle belle.

Il benchmark dei leader politici sul canale social

Umorismo per Facebook e fan

Nello studiare i profili FB dei preminenti parlamentari (attuali e futuri) ho appuntato alcuni dati:

  1. Partito di appartenenza.
  2. Numero di fan.
  3. Possibilità per i liker di postare messaggi (non solo commenti).
  4. Caratteristiche della foto in intestazione.

L’opportunità concessa ai fan di pubblicare aggiornamenti di stato sulla pagina Facebook (punto 3) è un prezioso indicatore delle risorse investite sul canale (più che della spiccata vocazione al diritto di parola): nessuno potrebbe mostrarsi così liberale senza aver prima affidato ad un collaboratore l’imprescindibile attività di moderazione. La voce numero 4 si presta invece come strumento per decifrare il tipo di approccio alla comunicazione, che per futura utilità ho classificato in: aggressivo, moderato, conciliante.

Ecco la tabella riassuntiva, in ordine di “preferenze online”:

Politico Partito Liker
Beppe Grillo Movimento 5 stelle 943.478
Nichi Vendola SEL 524.336
Silvio Berlusconi PDL 446.905
Antonio Di Pietro Italia dei valori 269.976
Angelino Alfano PDL 92.748
Pierluigi Bersani PD 79.207
Pier Ferdinando Casini UDC 23.164
Roberto Maroni Lega Nord 9210

La campagna politica su Facebook fa guadagnare consenso

Confrontando il prospetto sintetico con gli esiti delle elezioni di maggio 2012 emerge un dato tendenziale sbalorditivo: i profili politici con il maggior numero di fan sono proprio quelli che nella recente tornata sono stati – direttamente o indirettamente – premiati dalle urne.

Scettici e guastafeste potrebbero imputare alla tesi un grossolano errore: l’aver scambiato la causa con l’effetto. Ovvero: maggiore è il peso politico del personaggio e del corrispondente partito, superiore è il seguito registrato su Internet. Non è certamente così, come dimostra lo stesso prospetto utilizzato in precedenza: gli amministratori dal consolidato potere (Bersani, Alfano, Casini) occupano la coda della classifica; gli emergenti sono ai vertici. Fa eccezione Berlusconi, che fino a ieri non trascurava neanche uno dei mass-megafoni disponibili (più avanti vedremo quanto la situazione oggi sia cambiata).

Commentiamo punto per punto la tabella.

  1. Beppe Grillo, col suo Movimento 5 stelle, è stato da più parti riconosciuto come il vero protagonista della scorsa competizione elettorale. Pur sulla base di presupposti che nulla hanno a che vedere con i social media, il partito è riuscito a conquistare la carica di sindaco a Parma, spiazzando gli oppositori.
    1. Il profilo di Grillo non consente i “Post di altri”, peculiarità che non mi aspettavo di incontrare: la moderazione sembra appena accennata, tant’è che nei commenti il dissenso è presente in buona percentuale. Suppongo che il leader “digitale” ed i suoi consiglieri abbiano considerato inopportuno o forse troppo impegnativo concedere eccessiva libertà d’espressione in assenza di un puntuale monitoraggio.
    2. L’intestazione è caratterizzata da un’immagine “neutra”, riportante il marchio del movimento. Ma il logo vede Beppe Grillo sfogliare un libro intitolato “Siamo in guerra”. Più aggressivi di così si muore.
  2. Nichi Vendola, alla ribalta in queste settimane per la legittima aspirazione di partecipare alle primarie che dovranno celebrare la guida del prossimo centro-sinistra, da diversi anni vede crescere il consenso che fino ad oggi gli ha garantito la carica di Governatore alla Regione Puglia. Per quanti non l’abbiano ancora notato, su Facebook ha da poco sorpassato l’ex Presidente del Consiglio  per numero di fan. Mica noccioline.
    1. Chiunque può pubblicare aggiornamenti di stato, a condizione ovviamente che abbia in precedenza cliccato su “Mi piace”. La moderazione c’è e si vede, anche nei commenti.
    2. Per Vendola il messaggio trasmesso dall’impostazione grafica è “moderato-aggressivo”.
  3. In terza posizione troviamo Silvio Berlusconi. Il piazzamento è conseguenza di un ventennio di amministrazione quasi incontrastata, e di un discreto utilizzo del Web marketing per promuovere partito e leader. Ma la recente uscita di scena – conseguente alla caduta del Governo – si fa sentire anche sul profilo Facebook: ad ogni post si accodano numerosi commenti negativi – comunque in minoranza – tant’è che alcuni utenti invocano l’intervento di un moderatore. Interessante notare come la trascuratezza della pagina coincida con la vertiginosa caduta di consensi svelata dai sondaggi.
    1. Lascio che siate voi ad indovinare: gli utenti possono pubblicare aggiornamenti di stato nella casa virtuale di Berlusconi?
    2. Le foto presenti hanno tutte natura “conciliante”.
  4. Antonio Di Pietro è notoriamente molto attivo sul Web. Quarto classificato, nonostante il cospicuo bacino di sostenitori online non sembra riuscire a portare sempre a segno gli obiettivi di “conversione” politica. Nelle recenti amministrative il numero dei voti è calato.
    1. Di Pietro consente la pubblicazione di aggiornamenti di stato ai propri fan.
    2. Immagine di copertina e logo nel complesso lasciano percepire una forma di comunicazione moderata-aggressiva.
  5. Angelino Alfano è l’attuale leader del PDL. La sua attività politica Facebook non è premiata: si piazza solo quinto, dietro un’IDV che non può certo competere per elettorato. Se le scarse performance possono essere in parte addebitate all’imperante figura del fondatore di partito, che per le preferenze è come una spugna, di certo fanno il paio con il sensibile calo registrato nell’ultimo suffragio.
    1. L’interazione sul profilo è limitata ai commenti.
    2. Il messaggio “grafico” è totalmente conciliante.
  6. Pierluigi Bersani è la guida del primo partito italiano di oggi (a detta dei rilevamenti). La sua pagina raccoglie appena ottantamila fan, e non è aperta ai contributi dei liker. Alle amministrative non è andata come l’autore di simpatici aforismi forse si augurava.
  7. Rispetto a PD e Bersani è forse più proporzionato il bacino d’utenza di Pier Ferdinando Casini rispetto al numero dei simpatizzanti dell’Unione di Centro. Ma di certo non è all’altezza di un personaggio di fama. E anche qui c’è da fare i conti con i risultati delle amministrative di maggio, dove l’UDC non ha brillato.
  8. Fanalino di coda, Roberto Maroni e la Lega Nord pagano lo scotto degli scandali che hanno coinvolto il leader carismatico e la sua famiglia, Bossi. Ma la ridottissima visibilità sui social network è forse anche conseguenza dell’eterna difficoltà di dotare le aspirazioni indipendentiste di un’identificazione sovraregionale; l’ambito è forse troppo ristretto per farsi strada nei nuovi media. Fatta eccezione per la netta affermazione in un collegio, a maggio la Lega non ha saputo bissare i successi di qualche hanno fa.

La politica virtuale non è necessariamente anche reale

Non abbiamo considerato Matteo Renzi che, giovanissimo e fino all’altro ieri sconosciuto alla Nazione, su Facebook ha la bellezza di 150.000 fan. Ma quanto detto fino a questo momento è più che sufficiente per sostenere un assioma: la politica Facebook paga, e fa guadagnare voti.

Per ottenere risultati soddisfacenti non è necessario dedicarsi alla rete virtuale anima e corpo, come fa Di Pietro. Ma, come per l’ex PM, è bene confrontarsi quotidianamente e direttamente con i simpatizzanti. Così da cogliere sentimenti collettivi, tradurli in strategie ed atti parlamentari, celebrando una legittima volontà di rappresentanza.

Non è neanche detto che sia opportuno persino fondersi con il Web, e farne l’unico strumento di comunicazione. Mi riferisco a Beppe Grillo ed al suo movimento. L’ex comico ha dalla sua una profonda conoscenza del mezzo e possiede oramai un’identità digitale dall’inarrivabile carisma. Ma ad un attento esame dei contenuti e delle discussioni che popolano blog e pagina Facebook a cinque stelle si percepisce che il principale collante tra simpatizzanti, attivisti e leader è costituito dal desiderio di rappresentare malcontento ed insoddisfazione. E da un imperante quanto potenzialmente infruttuoso sentimento di antipolitica (leggete i commenti a questo post se vi preme verificare).

La considerazione mi è servita per introdurre l’ultimo argomento di questo post: la qualità o, se preferite un’espressione più pertinente al Web marketing, la conversione dei lead. Tra i meriti di Grillo c’è l’essere riuscito a sfruttare una delle molle delle community online – la dinamica dell’aggressività – per conquistare notorietà. Ma non è per nulla scontato che questa si traduca proporzionalmente in effettivo consenso elettorale e concrete capacità amministrative, come d’altra parte sembrano voler dimostrare i malumori interni manifestati di recente. In altre parole: si può efficacemente promuovere attraverso il Web un grande movimento, però non si può pretendere di gestirlo come fosse una chat-pizza o un techno camp. Di questo i rappresentanti locali alle prese con l’organizzazione dei collegi elettorali si stanno rendendo conto, e si è reso conto il sindaco di Parma che ha faticato non poco per la convocazione del primo consiglio comunale.

Ancor più che l’eccitazione tecnologica ed il tifo calcistico, la politica applicata al Web genera ambienti di passione. Dove chiunque è esposto a distrazioni e rischia di perdere di vista gli obiettivi. Come dire: la politica Facebook ha potenzialità straordinarie, a patto che il Social media manager non perda di vista il fine ultimo del processo di conversione: conquistare il governo e praticarlo. Fuori dal Web.