Google+ supera Twitter: 2° social media nel mondo

Google+ è il secondo social media più frequentato al mondo; al primo posto regna Facebook, Twitter solo quarto dopo Youtube.

Che con Google+ quelli di Mountain View facessero sul serio si era capito fin da subito. Ma che ad un anno e mezzo dal lancio il social media sarebbe persino riuscito a raggiungere il secondo posto fra i network online più frequentati al mondo, superando Youtube e Twitter (rispettivamente terzo e quarto a poche misure di distanza fra loro), forse nessuno ci avrebbe scommesso un soldo.

Scontatamente al primo posto per numero di frequentazioni resta ancora Facebook, da anni in fuga rispetto ai concorrenti: accedono al network ogni mese quasi settecento milioni di “liker”, pari a circa il doppio di Google+ che si attesta a 343 milioni di utenti mensili.

Google+ supera Twitter

La classifica appena riportata – pubblicata da un’agenzia londinese di buon credito e specializzata nel Web – si rifà all’ultimo trimestre del 2012, arco temporale di riferimento per analisi e consuntivi già pubblicati e in via di elaborazione. I dati hanno valore internazionale: il campione rappresenterebbe il 90% dell’intera popolazione mondiale.

In crescita tutti i principali social media.

Ma c’è anche un altro tipo di competizione che interessa i social media: il tasso di crescita. Ed in questa gara è Twitter ad aggiudicarsi il primo posto, con un incremento su base trimestrale del 40% di persone a cui piace cinguettare. I suoi utenti mensili sono 288 milioni, equivalenti al 21% dei naviganti.

Nella speciale classifica Facebook si tiene nel gruppo di testa, con un aumento superiore al 30%. Resta straordinario il numero di utilizzatori: una persona su due, fra quelle che in tutto il Pianeta hanno accesso ad Internet, ha un account sul canale creato da Mark Zuckeberg. A stretto giro segue Google+ con il 25% di incremento e lo “share” del 25%.

Se lievita il consenso anche per Pinterest e Linkedin, numeri negativi si registrano invece nei social media di portata locale, schiacciati dalla concorrenza dei colossi internazionali. Gli utilizzatori dell’uscente Badoo, ed in particolare quelli che tramite Facebook ti chiedono se hai mai desiderato portare a letto una reciproca amica, si ritengano avvisati.

Le ragioni del successo di Google+

I motivi di un’escalation così clamorosa per la piattaforma inventata da BigG sono a mio avviso due. Il primo ha senz’altro a che fare con la crescita geometrica dei possessori di smartphone basati su sistema operativo firmato Google. Volenti o nolenti, prima o poi tutti coloro che usano un dispositivo Android si ritrovano come per magia attivi anche su Google+.

In realtà il discorso vale ugualmente per computer, notebook e tablet, come d’altra parte sostengono anche gli autori della statistica: sul network di Mountain View ci finiscono tutte le persone che abbiano creato un account Google per usare qualunque degli ulteriori servizi offerti: Gmail, Documenti, Drive, Calendar, Maps e altri. È stata dunque anche la sinergia fra le applicazioni di BigG a garantire all’ultimo nato l’esponenziale crescita registrata.

Tra l’altro il possedere un account su Google+ fa bene ai sempre più numerosi autori di blog personali: a detta di molti tecnici della SEO è indispensabile possederne uno per favorire la visibilità sui motori di ricerca, tanto in termini di posizionamento quanto nella possibilità di catturare l’attenzione attraverso i “rich snippet” (per intenderci, quelli che ad esempio al fianco di un risultato mostrano la foto dell’autore del relativo contenuto).

Rendiamo onore al merito.

Twitter cresce notevolmente, e probabilmente riuscirà in futuro anche ad accelerare ulteriormente il passo attraverso i nuovi servizi proposti (Vine, ad esempio). A Google+ può dirsi tutto, ma c’è da scommettere che d’ora in poi nessuno più si permetterà di appellarlo come “città invisibile”: è lì che gongola sul secondo gradino del podio,  facendo bella mostra della medaglia di bronzo appena conquistata.

Però al primo posto, apparentemente inarrivabile, resta Facebook. Che che se da un canto può vantare – come i diretti concorrenti – un alto tasso di crescita, oltre che un elevatissimo numero di frequentatori attivi al mese, dall’altro regna incontrastato nella graduatoria principe: la quantità totale di user. In questo la ricerca statistica che abbiamo appena esaminato parla chiaro: sul network ci bazzicano in totale – seppure non sempre con gran frequenza – circa un miliardo di persone.

In definitiva: da qualunque prospettiva si guardi ai dati, per Google+, Twitter ed altri social media emergenti la strada per impensierire Facebook appare ancora molto, molto lunga. Che dite: mi sbaglio?

Fonte.

Social curriculum e modulo curriculum europeo [infografica]

L’unione tra social curriculum – sempre più ricercato dai cacciatori di teste – e curriculum europeo (Europass), è il segreto per trovare lavoro. Credo.

Se un buon curriculum è l’arma più affilata per trovare un impiego, l’uso combinato di social curriculum e modulo europeo (Europass) costituisce un intero arsenale. Così almeno viene da pensare leggendo una recente e golosa infografica che raccoglie statistiche e sondaggi di autorevoli fonti, come Time e Forbes.

Cos’è il social curriculum? È la raccolta più o meno organica di informazioni integrate in un profilo personale online, come Facebook, Google+ e compagnia bella, destinato a favorire eventuali assunzioni. Tra il 2011 ed il 2012 sembra sia diventato uno gli strumenti più utilizzati dai cacciatori di teste nell’inseguire le prede:

  1. Lo scorso anno il 93% delle aziende e degli head hunter ha fatto ricorso a Linkedin per reclutare dirigenti ed impiegati.
  2. Il 66% dei “recruiter” ha ravanato su Facebook per lo stesso scopo, il 54% su Twitter.
  3. Sempre nel 2012, più di quattro persone su dieci hanno cercato impiego tramite i social media.

Usare assieme social curriculum e modulo curriculum europeo

Modulo curriculum europeo.

Se ora è finalmente più chiaro – perlomeno a me – cos’è il social curriculum, è il momento giusto per parlare di modulo curriculum europeo. Chiamato Europass, altri non è che una specie di codifica approntata dalla UE per guidare i job seeker nella compilazione dell’elenco delle competenze e delle qualifiche professionali, secondo uno schema “omologato” e dunque facilmente comprensibile da qualunque impresa occidentale (se non mondiale). Composto di cinque distinti modelli, di semplice compilazione e comunque supportati da dettagliate guide, è gratuitamente disponibile per il download presso il sito Web ufficiale europa.eu.

Fra i diversi moduli c’è il “Passaporto delle lingue”, che consiste in una sorta di autocertificazione sulla conoscenza dell’inglese, del francese, del tedesco e di altri idiomi stranieri. Il sistema di autovalutazione permette di dichiarare la propria abilità linguistica attraverso tre diverse classificazioni: “comprensione”, “parlato” e “scritto”.

Un metodo simile, solo un pizzico più articolato, viene utilizzato in un altro modello per qualificare il percorso di formazione; ad ogni livello scolastico corrispondono precisi codici, legati tanto al grado quanto all’indirizzo dell’istruzione maturata. Infine c’è lo strumento chiamato “Europass mobilità“, che aiuta nel declinare le competenze eventualmente acquisite all’estero.

Il social curriculum: chi, come e perché.

Se il modulo europeo è oramai lo standard per compilare un curriculum, ed il social curriculum è tra le vie brevi perché le nostre referenze raggiungano i reclutatori, allora è chiaro che di entrambi non si può più fare a meno.  Torniamo quindi all’infografica e lasciamoci guidare dalle sue statistiche e dai suggerimenti, alcuni dei quali in verità solo un pizzico scontati:

  1. In che modo il social curriculum può favorire le candidature per specifici settori lavorativi?
    1. Offre una chiara ed efficace esposizione di competenze ed esperienze.
    2. Favorisce l’accesso a reti professionali.
    3. Permette la pubblicazione di elenchi facilmente ed immediatamente aggiornabili.
    4. Consente di riscontrare la visibilità dei dati attraverso le statistiche sui lead (numero di visite, origini del contatto, etc.).
  2. Quali social media utilizzare?
    1. Linkedin è nato per i professionisti, quindi meglio si presta a trovare lavoro. Tanto più che agevola le aziende nella ricerca di candidati per keyword, settori industriali, gruppi e network.
    2. Tumblr, WordPress ed altri siti come Blogger, consentono la pubblicazione di blog a costo zero dove promuovere il proprio curriculum (social, appunto).
    3. Twitter e Facebook permettono di evidenziare le competenze, di stringere contatti diretti con le imprese, e di attingere immediatamente alle eventuali offerte di lavoro (sempre più spesso pubblicate attraverso i social media).
  3. Qual è il social curriculum preferito dai cacciatori di teste?
    1. Secondo chi ne sa di più, il social curriculum ideale dovrebbe indicare – fra l’elenco di qualifiche e idoneità – anche l’appartenenza ad un’associazione professionale. Nel caso risulti impossibile, pare sia comunque molto ben vista l’esplicita partecipazione ad attività di volontariato (motivo di merito in ogni caso).
    2. È davvero ovvio ciò che invece non deve apparire per nessuna ragione al mondo sui profili di Facebook, Twitter & Co. Ribadirlo, però, male non farà: è d’obbligo tenere lontani errori grammaticali, espressioni volgari, simpatie per droghe ed alcolici, e finanche post di carattere religioso (a meno di volere un posto come guardia svizzera o custode di moschea).

Sei influente? Dimostralo, creativamente!

Se si ritiene di possedere buone doti di authority ed influencing sui social media è assolutamente necessario farne menzione nel curriculum. Come? Ad esempio dichiarando il proprio Klout Score, strumento di valutazione degli account Twitter tanto odiato quanto diffusamente affermato. Se proprio non dovesse piacervi è sempre possibile usare in alternativa Twitalyzer, ma non ci si illuda che goda della stessa considerazione.

Ovviamente essere autori di un blog molto frequentato, e costantemente citato su Pinterest, Digg, Google+ ed altre community online, significa disporre di un biglietto da visita davvero prezioso. I meno fortunati, i cui post vengano puntualmente snobbati dai social media, è bene che almeno si diano da fare su Linkedin, dove un cospicuo numero di “collegamenti”, raccomandazioni ed eventuali endorsement pare valga più di un master alla Harvard University.

Il modo ideale per rappresentare il proprio social curriculum è quello di renderlo accattivante ricorrendo a soluzioni creative ed originali. È il caso, ad esempio, di chi ha affidato ad una divertente infografica l’elenco dei titoli di studio e delle esperienze professionali. O di chi, attraverso un sapiente uso di Photoshop, ha incollato quelle informazioni sulla confezione Tetrapak di un succo di frutta, al posto della lista degli ingredienti e delle componenti organiche. C’è persino chi ha modellato il layout del proprio curriculum sul look di Google Analytics, e l’idea mi piace talmente tanto che penso la farò presto mia.

Aggiornamento: proprio in queste ore un giovane parigino disoccupato ha pubblicato il suo curriculum su di un fake-site di Amazon approntato per l’occasione; l’unico prodotto da inserire nel carrello – con tanto di prezzi e dettagli sulla spedizione – è lui, “ultimo pezzo rimasto”. Non passerà inosservato.

Social media ed Europass aiutano davvero a trovare occupazione?

Anche a rischio di sembrare un po’ choosy, prima di chiudere questo post vorrei chiedervi se conoscete ricchi datori di lavoro alla ricerca di social media manager cui affidarsi ciecamente, che accettino qualunque richiesta di budget senza batter ciglio, e che siano disposti ad eleggervi al contempo project manager, revisori di progetto e analisti del ROI.

In attesa della risposta passerei quindi all’ultimo punto dell’infografica: il social curriculum può davvero favorire la ricerca di impiego? A dar fiducia ai dati forniti direi di sì: lo scorso anno l’89% degli head hunter ha effettuato assunzioni tramite Linkedin almeno una volta, il 25% lo ha fatto attraverso Facebook, il 15% per mezzo di Twitter. C’è da scommettere che gran parte dei candidati vincenti avesse generosamente disseminato lungo gli account social la bella copia del proprio modulo curriculum europeo.

Curiosità: chi di voi ha già pubblicato un social curriculum, magari Europass? E poi: vi è mai capitato davvero di incontrare un dirigente che eroga finanziamenti marketing senza obiettare?

Social media marketing: il freno del malcostume

Il Social media marketing può entrare in conflitto con “equilibri di potere” interni alle aziende? Il caso della politica.

Come fanno il Social media marketing, la politica ed il malcostume, a trovare spazio nello stesso post? Potrei cavarmela sostenendo che, pur differenti, i tre argomenti sono tutti di forte attualità: la politica riaffiora grazie alla nuova campagna elettorale, sempre più praticata attraverso Facebook e Twitter; il malcostume – a vent’anni da “mani pulite” – torna padrone delle cronache (politiche); finalmente (in Parlamento) si riprende a discutere di “Agenda digitale”, oggi addirittura considerata primaria opportunità di riscatto per l’intera economia italiana.

In realtà l’obiettivo di questo post – tenuto nel cassetto per diverso tempo – è affrontare assieme i diversi temi per indagare sui freni alla definitiva affermazione del digital marketing in un Paese, come il nostro, dove un terzo della popolazione frequenta Facebook. E per scoprire se – come mi auguro non sia – dentro i grandi numeri che ancora caratterizzano il tradizionale mercato pubblicitario nazionale si nascondano ulteriori impedimenti e antagonismi.

Naturalmente per raggiungere il fine cercherò di mettere in gioco argomenti solidi, obiettivamente riscontrabili. Come ad esempio lo stato attuale del Social media marketing nel mondo delle nostre imprese, secondo il parere del più illustre opinionista che un marketer potrebbe interpellare.

Le aziende amano i nuovi strumenti di comunicazione

Da una statistica, condotta per conto di Google su di un vasto campione di ditte europee, lo scorso maggio emergeva un dato sorprendente: l’83% dei dirigenti italiani utilizza i social media per esigenze professionali. E molti senior manager li considerano perfino indispensabili, perché capaci di generare innovazione, semplificare i contatti, favorire la produttività e ridurre il carico di lavoro.

Per contro il grado di “apertura” al pubblico delle aziende italiane attraverso canali come Google+, Facebook e Twitter non è altrettanto entusiasmante, anche se per fortuna il trend resta positivo. Al riguardo gli autori ed i committenti delle numerose ricerche di mercato sono ottimisti e concordano: il bicchiere è mezzo pieno.

Come nel caso dell’analisi pubblicata a metà marzo dalla IULM, la Libera Università di Lingue e Comunicazione (autrice dell’infografica riportata in basso).

Infografica che illustra i progressi del Social media marketing in Italia

Il Social media marketing sempre più praticato dalle aziende

Secondo la ricerca della IULM nel 2011 il 50% delle aziende ha aperto un blog o ha attivato almeno un account su Facebook, Youtube, Flicker e Linkedin. C’è da scommettere che ad oggi la percentuale si discosti ancora di più dai brutti dati registrati nel 2010, quando soltanto il 32% del campione intervistato dichiarava di far ricorso al Social media marketing.

Lo stesso sondaggio, come sottolineano gli autori, rivela però due aspetti poco entusiasmanti:

  1. l’adozione dei moderni mezzi di comunicazione aumenta solo tra le piccole aziende, dove si passa in un solo anno da 10 a 43 punti percentuali. Davvero modesto il progresso registrato invece nelle grandi imprese: appena lo 0,6%.
  2. L’effettivo utilizzo dei social media, caratterizzato da reale impegno in termini di risorse umane e finanziarie, è bassissimo: soltanto l’1,16% degli amministratori pratica il Social media marketing in modo continuativo, strategico, strutturato.

Il direttore scientifico del master addirittura afferma: “i risultati ottenuti testimoniano anche come essi (i “social”, ndr) siano ancora molto spesso gestiti in maniera un po’ improvvisata e poco consapevole delle logiche comunicative e dei linguaggi propri di ciascuno di tali canali.

I conti non tornano

Ma come è possibile – ci si potrebbe chiedere – che i manager dei brand più affermati utilizzino per lavoro le piattaforme Web di comunicazione, la messaggistica istantanea di Skype o Google+ e le reti private di Linkedin, per poi mostrarsi timidi e timorosi quando c’è da dotare l’impresa di pubblici strumenti sociali? Perché per metà dei casi si mostrano rinunciatari di fronte alle riconosciute opportunità di ottimizzare le dinamiche aziendali, migliorare brand awareness e reputation, gestire buzz e WOM, e perfino cogliere nuove opportunità di business attraverso l’analisi concorrenziale, i sondaggi e la verifica della brand equity che i feedback degli utenti consentono?

Per le piccole attività imprenditoriali l’atteggiamento appare in qualche modo giustificabile: il dirigente può chiedere ad amici e parenti di aprire la pagina Facebook della ditta, ma difficilmente potrà ricorrere ad un Social media manager per poi gestirla professionalmente. Per le grandi e medie imprese la spesa sarebbe invece pienamente sostenibile, soprattutto a fronte dei notevoli risparmi generati dalla concomitante sospensione di omologhe prassi di outbound e traditional marketing.

Dunque i conti non tornano. A meno di guardare più a fondo proprio in quelle dinamiche aziendali che si vorrebbero – per il bene dell’intera economia italiana – più snelle, versatili, innovatrici e fonti di nuovi sbocchi occupazionali.

I freni dell’evoluzione

Possiamo prendere atto: secondo l’illustre parere di Google è da sfatarsi l’ipotesi che ad ostacolare i social media presso le grandi aziende sia la diffidenza culturale dei dirigenti di “vecchia generazione”. Anzi: i senior manager ne apprezzano apertamente l’efficacia più di chiunque altro.

Possiamo inoltre dare per scontata la convenienza economica dell’inbound marketing rispetto a quello tradizionale, tanto più che ad esso sempre più di frequente ricorrono le piccole imprese, costituzionalmente sensibili al rapporto qualità/prezzo ed impossibilitate a praticare i “vecchi” canali pubblicitari, come televisioni, radio, riviste (l’outbound MKTG, per intenderci).

Dunque: visto che le aziende, soprattutto le più importanti, apprezzano Web e Social media marketing come fattivi ed economici strumenti di promozione, perché non ne fanno ricorso in massa?

Non ho testimonianza diretta dell’eventuale presenza, nelle grosse imprese, di fenomeni di malcostume. Ritengo però moderatamente affidabile la teoria secondo la quale la politica è lo specchio della società, o viceversa. Almeno in quegli ambienti dove circola molto danaro.

Nelle multinazionali il volume degli investimenti pubblicitari in spot e display advertising è ancora gigantesco, rispetto ad una barcollante economia di mercato: perché considerare illegittimo il sospetto che non sia soltanto la dedizione al marchio a motivare, anche solo in rari casi, le scelte di chi gestisce quei budget?

E ancora: perché – nella diffusa consapevolezza dell’efficacia del Web – il 50% dei dirigenti che usa per se stesso i nuovi media non vede invece di buon occhio un diverso, più attento, diversificato, innovativo e redditizio utilizzo delle risorse finanziarie destinate al marketing?

Una precisazione, per concludere: in tutte le mie occasioni professionali non ho mai avuto ragione di dubitare della buona fede dei miei interlocutori. Ma è pur vero che fino ad oggi ho incontrato solo realtà moderne e costituzionalmente rivolte all’innovazione. Mi chiedo quindi se la felice esperienza potrà replicarsi anche quando dovesse capitarmi di gestire il Social media marketing di aziende meno dinamiche. O persino, per restare in tema con la politica, “burocratizzate”.

 

Brand equity, Minetti e Parah: crisis management impossibile?

Brand equity di Parah in pericolo dopo la passerella di Nicole Minetti: il marchio di intimo moda bersagliato su Facebook. Il crisis management praticabile solo ad una condizione.

Premessa | Parah, SPA italiana specializzata in intimo moda, per nulla intimorita dal pericolo di ferire la propria brand equity assume come indossatrice la consigliera regionale Nicole Minetti. La signora è bella, ha un portamento sufficientemente elegante ed è molto nota, ma soltanto perché coinvolta in faccende giudiziarie sulle quali è forse sconveniente soffermarci.

Brand equity di Parah compromessa su Facebook

Il fatto | Per via della scelta la ditta varesina viene investita sui social media aziendali (in particolare Facebook) da un’ondata di violente critiche. La bacheca ancora oggi – a diversi giorni dall’accaduto – sembra un tiro al bersaglio.

Un timido riparo | Prima della passerella – all’anticiparsi dei malumori – il management di Parah aveva già sperimentato una difesa preventiva, pubblicando proprio sulla sua bacheca un aggiornamento di stato in cui si spiegavano le ragioni della scelta: in parole semplici si voleva fare “guerrilla marketing”.

Il pentimento | Preso atto del potenziale danno alla brand equity, l’amministratore dell’azienda rilascia un’intervista con la quale rinnega la (cosiddetta) “chiacchierata” modella. E promette che non farà mai più ricorso ad escamotage di marketing tanto rischiosi.

Gli ulteriori sbagli | Nel pronunciarsi pubblicamente, prima su Facebook e poi ai microfoni de “La zanzara”, l’AD di Parah commette alcuni errori che paiono grossolani:

  1. si lascia andare a discutibili battute di spirito nei confronti di uno stimato personaggio televisivo che aveva criticato l’operazione, vanificando così il tentativo di fugare le accuse di “cattivo gusto” che le erano state rivolte;
  2. sottovaluta l’importanza dei social media;
  3. non attiva immediatamente il crisis management.

Perché giocare d’azzardo con la brand equity?

La domanda si ripete più volte sulla pagina Facebook di Parah, e anche voi ve lo sarete chiesti: chi e perché ha deciso di avventurarsi nella rischiosa impresa, individuando in Nicole Minetti la testimonial per una sfilata?

Secondo alcuni si tratta di una scelta consapevole, per quanto potenzialmente sbagliata: la consigliera doveva far lievitare il buzz che circonda l’azienda. E così è stato.

Per altri la ragione è la stessa, ma non c’è alcun errore: il rumor generato dalla notizia contribuirà nel tempo alla notorietà del marchio, alla brand equity, e conseguentemente aiuterà il buon fatturato.

Altri ancora interpretano l’accaduto ipotizzando una forte incompetenza dei responsabili del marketing.

Io cerco di guardare alle dinamiche aziendali sempre con una prospettiva terrena, e dopo averci riflettuto un po’ per me l’interrogativo ha perso di interesse. Chissà: forse la signora Minetti è nell’entourage del consiglio di amministrazione di Parah, e così in un’allegra (e candida) serata tra amici è venuta fuori l’idea. Ed evidentemente è anche sembrata buona, tra chiacchiere e sorrisi e calici di prosecco, a qualcuno dei responsabili aziendali presenti.

Salvare la brand equity con un’operazione di crisis management

Senza presunzione di successo, a mio avviso sarebbe ancora possibile preservare il valore del marchio coordinando immediatamente un’azione di crisis management sui principali social media. Ma per fermare l’assedio ci vorrebbero tempismo, determinazione, trasparenza e Web credibility.

Alle imprescindibili condizioni che indico più avanti, fossi in Parah procederei secondo questa scaletta:

  1. Pubblicazione di una netiquette. Contenente tra l’altro un patto con gli utenti che consenta il confronto e conceda spazio per spiegare l’accaduto, anche attraverso legittime prassi di moderazione.
  2. Dichiarazione scritta di scuse, sentite e partecipate, dello stesso manager che ha rilasciato l’intervista radiofonica. Al fine di recuperare la credibilità.
  3. Omissis (!).
  4. Una risposta per ciascun aggiornamento di stato dei liker. Una ad una.

Ho parlato di indispensabili premesse: prima di avviare l’operazione di crisis management sarebbe fondamentale che la dirigenza facesse proprie le dinamiche del Web e dei social media. Le risulterebbe altrimenti difficile comprendere la portata dei passi falsi commessi, per evitarne in futuro.

Come accennavo in un post dedicato alla pagina Facebook aziendale, è pericoloso sottovalutare le reti virtuali. Una volta entrati l’impresa è aperta al mondo: per far sì che tutto appaia pulito, ordinato ed in questo specifico caso anche elegante, è necessario che ogni componente faccia la sua parte, dirigenti compresi. Per preservare una brand equity che a volte, come per Parah, è stata costruita ben prima che Wikipedia potesse spiegarne l’importanza.

Brand engagement su Facebook: le interviste

È possibile fare brand engagement attraverso Facebook in molti modi. Tra le soluzioni più efficaci c’è l’intervista in tempo reale.

Il termine engagement risulta simpatico agli esperti di marketing: viene spesso usato con accezioni diverse in differenti contesti. Su Facebook si contano almeno due alternative: brand e fan engagement.

Brand e fan engagement su Facebook

Entrambi i significati fanno al nostro caso; ci serviranno per mettere in rilievo l’importanza che a mio avviso riveste lo strumento “intervista” per migliorare sentiment e notorietà di brand e azienda e per incrementare la partecipazione dei fan.

Fan engagement

L’ingaggio dei liker in un aggiornamento di stato su di una pagina o un profilo Facebook può facilmente spiegarsi con il termine “coinvolgimento“. Il grado di partecipazione si misura attraverso due semplici parametri: la quantità di commenti ed il numero di “Mi piace”.

Secondo i guru dei social media esistono numerose strade per far sì che un aggiornamento di stato – indipendentemente dal contenuto – appaia interessante, appassionante e quindi coinvolgente. Ne elenco solo alcuni:

  1. Utilizzare immagini efficaci (foto divertenti, spettacolari, dal forte appeal – senza esagerare, come in questo post)
  2. Indire sondaggi
  3. Dispensare inediti suggerimenti (e trucchi!)
  4. Chiedere feedback e fare co-creazione (invitando gli utenti a suggerire funzioni e caratteristiche da implementare in prodotti e servizi)

All’elenco si aggiunge un’alternativa che ho personalmente sperimentato con grande soddisfazione come responsabile dei social media di una nota multinazionale: l’intervista di opinion leader ed influencer. L’operazione è impegnativa ma proporzionalmente efficace: la stessa presenza sulla pagina di un noto personaggio del settore è di forte richiamo, tanto più se i fan godono dell’opportunità di interagire con lui formulando domande dirette.

Brand engagement su Facebook

L’intervista ha altri benefici effetti. Ad esempio garantisce visibilità della pagina sul profilo dell’intervistato (come in quello dei suoi follower) e spesso anche sul suo blog, dove l’evento di consueto viene annunciato e/o successivamente commentato.

Siamo dunque arrivati al secondo concetto anticipato in premessa: il brand engagement. I dizionari marketing – e Wikipedia in primis – definiscono l’espressione con “il processo con il quale si crea un legame tra marchio e cliente“.

Conversare pubblicamente con interlocutori di chiara fama consente di acquisire credito (e trasmetterlo, per reciproca utilità); i teen-ager userebbero l’efficace metafora del “guadagnare punti”, ed i politici si esprimerebbero in termini di “allargamento del consenso ed incremento dei voti”.

Con Facebook i vantaggi e le opportunità si moltiplicano: non soltanto si acquisiscono autorevolezza e credibilità, ma al contempo si conquista piena visibilità nei canali in-target, la si estende in ambiti off-target virtualmente illimitati, e conseguentemente si favoriscono nuovi “Mi piace”. Peraltro altamente motivati.

In definitiva il confronto diretto, l’interazione con personalità note attraverso i social media è uno dei metodi più proficui per praticare fan e brand engagement. Nel lavorare su ciascun singolo aggiornamento di stato, con l’obiettivo di aumentare e qualificare la partecipazione, più in generale si estende l’audience e si migliora profondamente la Web reputation. Dati alla mano, secondo le mie esperienze.

Politica Facebook: come guadagnare voti. Veri.

Politica Facebook? La campagna elettorale si vince su Internet, parola di Grillo e Nichi Vendola.

Vi siete mai chiesti quanto vale l’accoppiata politica / Facebook in termini di voti? Io me lo domando da un po’: incuriosito dal successo di partiti emergenti alle passate amministrative, vorrei riuscire a stimare le potenzialità del binomio in vista delle prossime consultazioni.

Siccome mi piace vincere facile ho cercato su Google come in libreria possibili risposte all’interrogativo, ma senza fortuna: purtroppo il tema è generalmente trascurato da sociologi e tecnici, forse a causa dello scarso interesse coltivato dalla classe dirigente. Che “per copione” è conservatrice e dunque poco incline alla pratica dei new media.

Per scoprire il risultato dell’equazione consenso elettorale / numero (e qualità) dei fan bisogna dunque rimboccarsi le maniche. Iniziamo col prendere in esame le “pagine” dei principali rappresentanti dell’arte di governo. Ne vedremo delle belle.

Il benchmark dei leader politici sul canale social

Umorismo per Facebook e fan

Nello studiare i profili FB dei preminenti parlamentari (attuali e futuri) ho appuntato alcuni dati:

  1. Partito di appartenenza.
  2. Numero di fan.
  3. Possibilità per i liker di postare messaggi (non solo commenti).
  4. Caratteristiche della foto in intestazione.

L’opportunità concessa ai fan di pubblicare aggiornamenti di stato sulla pagina Facebook (punto 3) è un prezioso indicatore delle risorse investite sul canale (più che della spiccata vocazione al diritto di parola): nessuno potrebbe mostrarsi così liberale senza aver prima affidato ad un collaboratore l’imprescindibile attività di moderazione. La voce numero 4 si presta invece come strumento per decifrare il tipo di approccio alla comunicazione, che per futura utilità ho classificato in: aggressivo, moderato, conciliante.

Ecco la tabella riassuntiva, in ordine di “preferenze online”:

Politico Partito Liker
Beppe Grillo Movimento 5 stelle 943.478
Nichi Vendola SEL 524.336
Silvio Berlusconi PDL 446.905
Antonio Di Pietro Italia dei valori 269.976
Angelino Alfano PDL 92.748
Pierluigi Bersani PD 79.207
Pier Ferdinando Casini UDC 23.164
Roberto Maroni Lega Nord 9210

La campagna politica su Facebook fa guadagnare consenso

Confrontando il prospetto sintetico con gli esiti delle elezioni di maggio 2012 emerge un dato tendenziale sbalorditivo: i profili politici con il maggior numero di fan sono proprio quelli che nella recente tornata sono stati – direttamente o indirettamente – premiati dalle urne.

Scettici e guastafeste potrebbero imputare alla tesi un grossolano errore: l’aver scambiato la causa con l’effetto. Ovvero: maggiore è il peso politico del personaggio e del corrispondente partito, superiore è il seguito registrato su Internet. Non è certamente così, come dimostra lo stesso prospetto utilizzato in precedenza: gli amministratori dal consolidato potere (Bersani, Alfano, Casini) occupano la coda della classifica; gli emergenti sono ai vertici. Fa eccezione Berlusconi, che fino a ieri non trascurava neanche uno dei mass-megafoni disponibili (più avanti vedremo quanto la situazione oggi sia cambiata).

Commentiamo punto per punto la tabella.

  1. Beppe Grillo, col suo Movimento 5 stelle, è stato da più parti riconosciuto come il vero protagonista della scorsa competizione elettorale. Pur sulla base di presupposti che nulla hanno a che vedere con i social media, il partito è riuscito a conquistare la carica di sindaco a Parma, spiazzando gli oppositori.
    1. Il profilo di Grillo non consente i “Post di altri”, peculiarità che non mi aspettavo di incontrare: la moderazione sembra appena accennata, tant’è che nei commenti il dissenso è presente in buona percentuale. Suppongo che il leader “digitale” ed i suoi consiglieri abbiano considerato inopportuno o forse troppo impegnativo concedere eccessiva libertà d’espressione in assenza di un puntuale monitoraggio.
    2. L’intestazione è caratterizzata da un’immagine “neutra”, riportante il marchio del movimento. Ma il logo vede Beppe Grillo sfogliare un libro intitolato “Siamo in guerra”. Più aggressivi di così si muore.
  2. Nichi Vendola, alla ribalta in queste settimane per la legittima aspirazione di partecipare alle primarie che dovranno celebrare la guida del prossimo centro-sinistra, da diversi anni vede crescere il consenso che fino ad oggi gli ha garantito la carica di Governatore alla Regione Puglia. Per quanti non l’abbiano ancora notato, su Facebook ha da poco sorpassato l’ex Presidente del Consiglio  per numero di fan. Mica noccioline.
    1. Chiunque può pubblicare aggiornamenti di stato, a condizione ovviamente che abbia in precedenza cliccato su “Mi piace”. La moderazione c’è e si vede, anche nei commenti.
    2. Per Vendola il messaggio trasmesso dall’impostazione grafica è “moderato-aggressivo”.
  3. In terza posizione troviamo Silvio Berlusconi. Il piazzamento è conseguenza di un ventennio di amministrazione quasi incontrastata, e di un discreto utilizzo del Web marketing per promuovere partito e leader. Ma la recente uscita di scena – conseguente alla caduta del Governo – si fa sentire anche sul profilo Facebook: ad ogni post si accodano numerosi commenti negativi – comunque in minoranza – tant’è che alcuni utenti invocano l’intervento di un moderatore. Interessante notare come la trascuratezza della pagina coincida con la vertiginosa caduta di consensi svelata dai sondaggi.
    1. Lascio che siate voi ad indovinare: gli utenti possono pubblicare aggiornamenti di stato nella casa virtuale di Berlusconi?
    2. Le foto presenti hanno tutte natura “conciliante”.
  4. Antonio Di Pietro è notoriamente molto attivo sul Web. Quarto classificato, nonostante il cospicuo bacino di sostenitori online non sembra riuscire a portare sempre a segno gli obiettivi di “conversione” politica. Nelle recenti amministrative il numero dei voti è calato.
    1. Di Pietro consente la pubblicazione di aggiornamenti di stato ai propri fan.
    2. Immagine di copertina e logo nel complesso lasciano percepire una forma di comunicazione moderata-aggressiva.
  5. Angelino Alfano è l’attuale leader del PDL. La sua attività politica Facebook non è premiata: si piazza solo quinto, dietro un’IDV che non può certo competere per elettorato. Se le scarse performance possono essere in parte addebitate all’imperante figura del fondatore di partito, che per le preferenze è come una spugna, di certo fanno il paio con il sensibile calo registrato nell’ultimo suffragio.
    1. L’interazione sul profilo è limitata ai commenti.
    2. Il messaggio “grafico” è totalmente conciliante.
  6. Pierluigi Bersani è la guida del primo partito italiano di oggi (a detta dei rilevamenti). La sua pagina raccoglie appena ottantamila fan, e non è aperta ai contributi dei liker. Alle amministrative non è andata come l’autore di simpatici aforismi forse si augurava.
  7. Rispetto a PD e Bersani è forse più proporzionato il bacino d’utenza di Pier Ferdinando Casini rispetto al numero dei simpatizzanti dell’Unione di Centro. Ma di certo non è all’altezza di un personaggio di fama. E anche qui c’è da fare i conti con i risultati delle amministrative di maggio, dove l’UDC non ha brillato.
  8. Fanalino di coda, Roberto Maroni e la Lega Nord pagano lo scotto degli scandali che hanno coinvolto il leader carismatico e la sua famiglia, Bossi. Ma la ridottissima visibilità sui social network è forse anche conseguenza dell’eterna difficoltà di dotare le aspirazioni indipendentiste di un’identificazione sovraregionale; l’ambito è forse troppo ristretto per farsi strada nei nuovi media. Fatta eccezione per la netta affermazione in un collegio, a maggio la Lega non ha saputo bissare i successi di qualche hanno fa.

La politica virtuale non è necessariamente anche reale

Non abbiamo considerato Matteo Renzi che, giovanissimo e fino all’altro ieri sconosciuto alla Nazione, su Facebook ha la bellezza di 150.000 fan. Ma quanto detto fino a questo momento è più che sufficiente per sostenere un assioma: la politica Facebook paga, e fa guadagnare voti.

Per ottenere risultati soddisfacenti non è necessario dedicarsi alla rete virtuale anima e corpo, come fa Di Pietro. Ma, come per l’ex PM, è bene confrontarsi quotidianamente e direttamente con i simpatizzanti. Così da cogliere sentimenti collettivi, tradurli in strategie ed atti parlamentari, celebrando una legittima volontà di rappresentanza.

Non è neanche detto che sia opportuno persino fondersi con il Web, e farne l’unico strumento di comunicazione. Mi riferisco a Beppe Grillo ed al suo movimento. L’ex comico ha dalla sua una profonda conoscenza del mezzo e possiede oramai un’identità digitale dall’inarrivabile carisma. Ma ad un attento esame dei contenuti e delle discussioni che popolano blog e pagina Facebook a cinque stelle si percepisce che il principale collante tra simpatizzanti, attivisti e leader è costituito dal desiderio di rappresentare malcontento ed insoddisfazione. E da un imperante quanto potenzialmente infruttuoso sentimento di antipolitica (leggete i commenti a questo post se vi preme verificare).

La considerazione mi è servita per introdurre l’ultimo argomento di questo post: la qualità o, se preferite un’espressione più pertinente al Web marketing, la conversione dei lead. Tra i meriti di Grillo c’è l’essere riuscito a sfruttare una delle molle delle community online – la dinamica dell’aggressività – per conquistare notorietà. Ma non è per nulla scontato che questa si traduca proporzionalmente in effettivo consenso elettorale e concrete capacità amministrative, come d’altra parte sembrano voler dimostrare i malumori interni manifestati di recente. In altre parole: si può efficacemente promuovere attraverso il Web un grande movimento, però non si può pretendere di gestirlo come fosse una chat-pizza o un techno camp. Di questo i rappresentanti locali alle prese con l’organizzazione dei collegi elettorali si stanno rendendo conto, e si è reso conto il sindaco di Parma che ha faticato non poco per la convocazione del primo consiglio comunale.

Ancor più che l’eccitazione tecnologica ed il tifo calcistico, la politica applicata al Web genera ambienti di passione. Dove chiunque è esposto a distrazioni e rischia di perdere di vista gli obiettivi. Come dire: la politica Facebook ha potenzialità straordinarie, a patto che il Social media manager non perda di vista il fine ultimo del processo di conversione: conquistare il governo e praticarlo. Fuori dal Web.

Pagina Facebook aziendale | Il social network per l’azienda | SEO

Pagina Facebook aziendale: tra i Social network forse il più potente ed efficace strumento di marketing per l’azienda.

[P.s.: spero torni utile la guida sulla pagina Facebook aziendale in formato PDF (circa 200 kb)]

Pagina Facebook aziendale | Quando la multinazionale (omissis) mi chiese di guidare i suoi social network italiani, Twitter e Facebook, accettai l’incarico con entusiasmo pari al timore. Questo perché i canali erano già stati creati da circa un anno e le cose non andavano per il verso giusto: in maggioranza si leggevano commenti negativi, che lasciavano percepire un sentiment incoerente con l’effettiva brand reputation (per la cui gestione Web ho successivamente ricevuto ulteriore incarichi).

Ho fatto questa premessa più che altro per allertare le imprese medio/piccole: creare pagine Facebook aziendali senza un progetto può portare a risultati insoddisfacenti, se non addirittura controproducenti. Bisogna avere bene in mente obiettivi e modalità, ed aver maturato consapevolezza di premesse e condizioni per poi procedere alla compilazione di un un business plan.

Strumenti per progettare una pagina Facebook aziendale.

Come creare e gestire una pagina Facebook aziendale

Per approntare un piano strategico finalizzato all’esordio sui social network e alla creazione della pagina Facebook aziendale è necessario uno strumento ad hoc. Il project management che io preferisco, e che utilizzo per le “cose importanti”, è Prince2; mi è stato consigliato tempo fa da un caro amico e collega. Non è certamente dei più semplici ed immediati, ma consente una visione d’insieme efficace e produttiva di qualunque tipo di attività strutturata. Ad esempio non è indicato per allestire un party, per quanto affollato possa essere, ma lo vedrei bene utilizzato in uno sposalizio in grande stile (chi l’ha organizzato sa bene quanto possa risultare impegnativo).

L’adozione di un tool per la pianificazione comporta vantaggi fondamentali: permette di definire con certosina precisione l’obiettivo della pagina Facebook aziendale, calendarizzare il time scale e prevedere le variabili principali. Come ad esempio output, outcome, dis-benefit, rischi e soprattutto costi e benefici. In questo modo risultano favorite tanto le eventuali revisioni in corso d’opera quanto la misurazione parziale o complessiva del ROI. Cosa potrebbe chiedere di più un dirigente d’azienda che si approccia ai social network con diffidenza, e che non è ancora in grado di apprezzare gli investimenti finanziari nelle attività di inbound marketing?

Chi e in che modo dovrà creare e curare la pagina Facebook aziendale?

Ci si può anche inventare social media manager, e se si possiede talento è possibile riscuotere successo anche senza esperienza. Ma alle imprese, per quanto è dato sapere, non piace rischiare. Ecco perché è bene identificare con cura un professionista che almeno fornisca i giusti indirizzi.

In un mondo perfetto lo staff dovrebbe essere costituito dalle seguenti figure, i cui compiti tuttavia potrebbero anche essere accollati ad un’unica persona:

  1. Project manager – Dovrà elaborare il progetto, verificarne l’esatta esecuzione, vagliare i report, ed eventualmente istruire il personale (direzione, vendita e MKTG). È bene rivolgersi ad un professionista.
  2. Responsabile della pagina Facebook aziendale – Cura il piano editoriale, redige i contenuti ed i report. Nella selezione dell’incaricato sarà bene dare più credito ai risultati dimostrabili che non ai titoli, viste le peculiarità dell’approccio digitale al social marketing. Marco Massarotto – autore per Apogeo dell’eccellente “Social Network – costruire e comunicare identità in Rete” – vede questa come una figura a metà tra un giornalista, un blogger ed un informatico.
  3. Coordinatore – Nel caso in cui i ruoli descritti in precedenza non siano affidati al personale sarà necessario che azienda committente e incaricati abbiano una figura di riferimento che garantisca la comunicazione in tempo reale. L’ideale è un impiegato interno – preferibilmente specializzato in marketing – che abbia particolare dimestichezza con i social network, ed al quale sia stata trasmessa la piena consapevolezza dell’importanza del progetto.
  4. Community manager – È colui che pratica la moderazione e alimenta la partecipazione con modalità reattive e proattive. Secondo la mia esperienza torna molto utile che sia egli stesso ad occuparsi della pubblicazione dei contenuti. In collaborazione con il responsabile della pagina sarà chiamato ad occuparsi di crisis management.
  5. Tecnici – Esterni o interni, sono coloro che curano il design della pagina, le personalizzazioni e le applicazioni, e producono elementi grafici come foto e video. Compiti come questi possono essere di volta in volta delegati ad agenzie, sotto la supervisione di chi guida la pagina Facebook.

Prepararsi alla nuova avventura.

La pagina Facebook aziendale sta per essere creata e pubblicata, sulla base delle responsabilità individuate e del piano marketing approntato. Ma prima di compiere il grande passo dovremo farne ancora qualcuno piccolo.

  1. Analisi delle dinamiche aziendali – Le persone a cui saranno affidate le responsabilità del progetto ed il suo autore devono conoscere profondamente la ditta committente. Fondamentale è la piena acquisizione della “vision” che guida l’impresa.
  2. Identificazione dell’identità digitale – Come si esprimerà l’azienda sui social network? Darà del “tu” agli interlocutori? Farà uso di emoticon? Per definire la “personalità” che l’impresa mostrerà su Facebook torna utile studiare il comportamento della concorrenza diretta e confrontare in un brainstorming i profili caratteriali che – preferibilmente – più persone avranno immaginato.
  3. Istruire l’azienda – Una volta entrati sul Web (ed aperta la pagina Facebook aziendale) l’impresa sarà aperta al mondo: chiunque potrà guardare dentro. Attraverso i tratti dei contenuti pubblicati, i tempi ed i modi delle azioni e delle reazioni, gli utenti riusciranno a percepire senza sforzo l’ambiente interno alla ditta. Per far sì che stanze e corridoi appaiano ordinati, puliti ed ospitali è bene che tutti i dipendenti vengano istruiti sulle dinamiche dei social network. Tornerà anche utile stabilire se gli stessi potranno o meno prendere parte pubblicamente alla community online, ed in caso positivo sarà indispensabile definire una policy comportamentale. Ma la cosa più importante sarà far comprendere a tutti che la comunicazione immediata è la chiave di volta del successo.
  4. Netiquette – Di fondamentale importanza è il regolamento al quale dovranno attenersi liker e amministratori della pagina Facebook aziendale. Dunque sarà bene fare propria una certezza ed abbandonare l’ideale di una Rete capace di autoregolamentazione e democrazia reale: senza un preciso elenco di comportamenti accettati e non tollerati c’è rischio di “anarchia”. La netiquette dovrà essere sintetica, chiara, e soprattutto tanto condivisibile da poter essere spontaneamente condivisa.
  5. Piano dei contenuti – Gli incaricati dovranno stilare una “linea editoriale” e programmare tempistiche e modalità di pubblicazione.
  6. Web awareness e benchmarking – Quando i dirigenti chiederanno conto dell’operato e vorranno misurare il ROI sarà necessario possedere termini di confronto. Dunque prima di partire si dovrà misurare la reputazione online, il sentiment, la popularity, il grado di influenza e quant’altro rientra tra gli obiettivi del business plan.

Opportunità, obiettivi e strategie della pagina Facebook aziendale.

Una pagina Facebook aziendale priva di precise connotazioni e finalità non ha ragion d’essere. Vediamo dunque cosa è possibile ottenere tramite il social network e come ottenerlo.

  1. Brand awareness – La conoscenza del marchio potrà essere incrementata a precise condizioni. In particolare è necessario: programmare la pubblicazione di contenuti di qualità (ad esempio approfondimenti, anteprime ed esclusive riservate ai fan); mirare all’engagement dei Web influencer; utilizzare strumenti promozionali interni e, possibilmente, esterni; garantire la piena sinergia fra tutti i canali di comunicazione esistenti. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante: a cosa serve una pagina Facebook aziendale se del lancio di un nuovo prodotto gli utenti vengono a conoscenza attraverso i blog specialistici, ai quali i PR avranno in precedenza inviato i relativi comunicati stampa?
  2. Brand reputation – Più la pagina sarà capace di proporsi come punto di riferimento per i clienti più sarà possibile gestire direttamente la reputazione online, piuttosto che affidarla a siti Internet e forum indipendenti.
  3. Presentazione prodotti – Quale vetrina migliore per evidenziare le caratteristiche di spicco della più recente linea prêt-à-porter?
  4. Promozioni e vendite – Sì, su Facebook è possibile e proficuo lanciare campagne di sconti, stimolare acquisti collettivi e persino approntare un negozio virtuale.
  5. Copertura eventi – Una conferenza stampa, la partecipazione ad una fiera, l’allestimento di uno stand riescono meglio se c’è qualcuno online che faccia da cassa di risonanza.
  6. Sondaggi e co-creazione – Confrontarsi direttamente con il pubblico comporta lo straordinario vantaggio di praticare engagement a costo zero.
  7. Customer care – Difficilmente Facebook può sostituirsi al servizio clienti, ma di certo può rappresentare la golosa opportunità di fornire un primo aiuto, anche grazie alla collaborazione degli utenti più esperti. Ciò favorisce la positiva percezione di brand e prodotto, impedendo che buzz e WOM siano liberi di scorazzare incontrollati su community esterne. L’occasione è buona anche per ottenere obiettivi riscontri (ed eventualmente agire di conseguenza) sull’operato del service che gestisce il customer care.
  8. Co-marketing – Per una startup mostrarsi pubblicamente in compagnia di una multinazionale affermata – come se fosse in atto una joint venture o almeno una partnership – è una chimera. A meno di trovarsi sul Web e possedere social network ben strutturati. E questo vale per un’impresa giovane come per un personaggio politico neo eletto o un attore emergente.
  9. Web monitoring – La pagina Facebook aziendale è una cartina tornasole, uno specchio della considerazione che marchio e prodotti riscuotono su Internet. Se la ditta non ha chi pratichi il monitoraggio a 360 gradi questa è un’opportunità da non sottovalutare.
  10. Feedback – Nessuno più dei liker può spiegarci meglio cosa funziona e cosa invece non va in un prodotto. Mettiamoci in posizione di ascolto: ci servirà in futuro per evitare gli stessi o simili errori, e praticare oggi stesso (ove possibile) migliorie.

Considerazioni e suggerimenti finali.

Il social networking è una materia tanto complessa e articolata che risulta – ovviamente – impossibile trattarla in un singolo contenuto. Forse non sarebbe sufficiente un corposo manuale. Ma siccome l’obiettivo di questo post è fornire un prospetto di base chiaro all’azienda che vuol aprire una pagina Facebook, ho lasciato da parte lo spazio conclusivo dove appuntare riflessioni sparse.

Innanzitutto la sincerità. Intendo dire che l’identità digitale dell’impresa deve necessariamente risultare trasparente e schietta se desidera conquistare l’imprescindibile fiducia dei fan. Non è indispensabile essere completamente “veri”, ma almeno bisogna mostrarsi “falsi – veri” (in merito la Disney ha qualcosa da insegnare). L’importante è in ogni caso evitare il terribile binomio “vero – falso” o, peggio, “falso – falso”.

La community è di tutti. E questo i frequentatori dovranno percepirlo immediatamente, così che possano sentirsi come a casa ed essere motivati a tornarci. Alla regola dovranno informarsi sia le attività di moderazione sia i contenuti programmati e quelli occasionali.

Il seeding è legittimo? Sì, se persino tumblr.com – hanno recentemente confessato i suoi creatori – l’ha utilizzato all’esordio del sistema di blogging. L’importante è andarci piano, con i piedi di piombo.

Fare pubblicità. Se rappresenta una ditta giovane e sconosciuta difficilmente la pagina sarà in grado di attirare liker spontaneamente. È dunque opportuno ricorrere inizialmente a strumenti promozionali interni a Facebook (engagement ads) ed esterni, inbound ed outbound. Quando una piccola base di fan sarà stata creata può risultare efficace ed economico l’endorsement.

Presidio o presenza? I suggerimenti fin qui elencati si rivolgono prevalentemente a coloro che vedano nei social network una piattaforma di promozione prioritaria. Ritengo però che possano tornare utili – se opportunamente filtrati – anche laddove il dirigente abbia disposto la creazione di spazi con il solo scopo di presenziare le reti sociali.

Ok, credo sia davvero tutto. È comunque a disposizione il sistema dei commenti per chi desideri approfondire questi ed altri argomenti. Buona pagina Facebook aziendale a tutti!

P.p.s. Dimenticavo le FAQ di Facebook per le aziende.

Facebook e Twitter: esempi di crisis management.

Su Facebook e Twitter il crisis management richiede tempismo e web credibility. La mia esperienza con Facebook e Twitter di Omissis.

Se un’azienda ha già una propria identità Web prima o poi si dovrà confrontare con il crisis management su Facebook e Twitter. Se l’azienda non ha ancora creato il suo alter ego digitale è opportuno che lo faccia in fretta.

Vale a dire che – come le persone – le imprese sono soggette per natura a crisi di reputazione. Non vi racconto l’ultima figuraccia che ho fatto ieri al bar, ma riporto invece l’esempio – fresco fresco – che riguarda il servizio hosting del gigante statunitense Godaddy (un partner Google, per intenderci): l’altro ieri il server principale e quelli dove poggiano milioni di siti nel mondo sono rimasti offline per diverse ore a causa di un serio inconveniente tecnico. L’azienda – che per quanto affermatissima non gode di buona reputazione sotto il profilo etico – ha commesso un errore sostanziale sul suo account Twitter. Tant’è che il giorno dopo si è vista costretta a lanciare un post sul blog istituzionale per scusarsi e promettere un “presente” ai clienti vittime dei disagi. In quel post, però, si è reso necessario sospendere i commenti perché – a causa dell’inefficace crisis management – a pochi istanti dalla pubblicazione si era alzata un’invalicabile montagna di pesanti improperi.

Un esempio di crisis management su Facebook e Twitter

Cos’ha combinato la multinazionale su Twitter? Si è limitata ad incassare, postando soltanto 7 tweet nell’arco di 5 ore (altro che “tempo reale”) a fronte di migliaia e migliaia di citazioni inviperite. Non basta! Nonostante le pressanti richieste di conoscere l’ETA (Estimated time of arrival, cioè il tempo stimato per risolvere il problema) l’interlocutore non forniva indicazioni ma dispensava generiche parole di conforto: “We are still working”, “We are still working”, “We are still working and your data are safe”, e via di copia e incolla).

Il crisis management Twitter per “Omissis”.

In situazioni in qualche modo paragonabili a quella di Godaddy mi ci sono trovato qualche mese fa con Omissis (8.000 follower) e Facebook (110.000 fan). L’azienda aveva promesso tempo prima un aggiornamento di sistema importante per il più rappresentativo dei suoi smartphone, Omissis, ma nel testare l’update si era accorta che il dispositivo mal lo digeriva. E così, candidamente, l’internazionale decise di comunicare agli utenti che il nuovo rilascio non ci sarebbe più stato. Apriti cielo!

Nel giro di qualche istante gli account Omissis social di tutto il mondo sono finiti all’inferno: la massa di contestazioni (è un eufemismo quello appena usato) era talmente grande e frenetica che pareva impossibile porre rimedio. Naturalmente non era così.

Sintetizzo estremamente le mosse del crisis management che ho praticato in due fasi.

Fase 1.

  1. L’azienda si è immediatamente (tempo reale) detta dispiaciuta per l’inconveniente, e pienamente consapevole dei disagi conseguenti.
  2. Ha preliminarmente stipulato un patto ad hoc con gli utenti: qualunque tweet e qualsiasi commento avrebbe ottenuto risposta, a condizione che fosse libero da aggressioni ed invettive. Si è così reso possibile il confronto ed il dialogo. E sono state giustificate le inevitabili attività di moderazione, rendendole legittime e perciò condivisibili (e quasi sempre condivise): chiunque ha il diritto di protestare, anche con estrema determinazione, ma senza offendere e senza impedire la discussione.
  3. Omissis ha quindi chiaramente denunciato la causa del problema: limiti tecnici che con l’aggiornamento avrebbero causato un’esperienza d’uso insoddisfacente.
  4. Nel rispondere a *tutti* i messaggi si è gradualmente spinto il flusso della conversazione verso la questione tecnica, allontanandosi da quella (terribile) più propriamente “morale”. Dal giudizio di valore si è passati a quello di merito, demotivando chi alle conversazioni avrebbe preso parte esclusivamente per pulsioni emotive.
  5. Si sono stimolati e coinvolti i presenti opinion leader – molto competenti sotto il profilo tecnico ed altrettanto amabili sotto quello umano – per analizzare a fondo la questione, così da catalizzare sui loro influenti pareri (appunto “tecnici”) l’attenzione dei follower e procedere quindi nella “razionalizzazione” del confronto.
  6. Ci si è posti in posizione di totale, sincero e credibile ascolto.
  7. Ci si è impegnati a comunicare agli organi internazionali rimostranze, suggerimenti e proposte.

In poche ore il crisis management si è rivelato efficace ed ha consentito la “gestione” diretta della brand reputation, impedendo che la stessa cadesse – totalmente indifesa – nelle mani di forum ed altre community online. Non è finita, ora viene il meglio (in senso ironico!).

– Fase 2.

Omissis il giorno dopo torna sui suoi passi: si impegna al rilascio di una versione “alleggerita” dell’aggiornamento promesso, così da dribblare i limiti hardware. Ma una notizia tanto positiva avrebbe potuto rivelarsi funesta, e procurare ulteriore danno per l’immagine del brand: troppo facile per gli utenti più emotivamente coinvolti dare ragione a chi – nelle fasi iniziali – denunciava biechi interessi commerciali dietro il mancato rilascio e tacciava l’impresa di aver mentito sulla questione dei “motivi tecnici”.

Ho proceduto in questo modo per scongiurare l’eventualità, che d’altra parte sarebbe stata davvero ingrata:

  1. Omissis ha immediatamente ed ampiamente sottolineato i dettagli tecnici della soluzione, concentrando il dialogo prevalentemente su questo aspetto, e premiando la lungimiranza e la capacità di analisi degli opinion leader coinvolti.
  2. Sempre immediatamente ha ringraziato tutti gli utenti per essersi fatti “ascoltare” il giorno precedente, e non semplicemente “sentire” a suon di improperi ed invettive.
  3. Si è complimentata con gli stessi utenti, peraltro davvero meritevoli, per l’efficacia della durissima ma costruttiva critica che – puntualmente trasmessa agli organi internazionali da Omissis – era stata appunto accolta e ripagata.

Ho vissuto altre occasioni per praticare, su Twitter e Facebook, il crisis management. Magari però ne parleremo in diverse occasioni.